Lettere a Sergio Romano Lunedì 17 novembre
Lavoro a Londra dove l’11 novembre sono stati ricordati tutti i caduti degli ultimi cento anni, dalla Grande guerra a oggi. Alla televisione sono stati dati ampi spazi anche a quei Paesi che analogamente celebravano questa ricorrenza, Francia, Belgio, ecc. È in corso una raccolta fondi nazionale che viene individuata con i papaverini di carta (poppies) che tutti gli uomini, dico tutti, indossano in Inghilterra. Visivamente è commovente vedere tutti uniti in questa raccolta, perché tutti sentono di dover ringraziare altri che si sono sacrificati per la libertà di oggi. In Italia non ho avvertito l’eco di queste cerimonie, per non parlare del silenzio istituzionale e della mancanza di valorizzazione che questo silenzio comporta. Significa che gli uomini che sono morti negli ultimi 100 anni a difesa della nostra patria e dei nostri valori non valgono niente? Non ho parole per raccontare la mia amarezza e il dolore che ciò mi provoca.
Clarice Pecori Giraldi
Cara signora,
Anch’io ho visto le immagini televisive di alcune celebrazioni europee e anch’io ho provato un po’ d’invidia per la serietà e la dignità con cui migliaia di persone rendevano omaggio contemporaneamente ai morti e alla patria per cui erano caduti.
Ma nonostante i nobili tentativi di Carlo Azeglio Ciampi durante il suo settennato, ogni manifestazione patriottica, in Italia, rischierebbe in di essere accolta, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, con indifferenza e scetticismo. La Grande guerra fu una drammatica esperienza nazionale da cui il Paese uscì vincitore.
Ma il fascismo si appropriò di quell’evento imprigionandolo in un nazionalismo becero, arrogante e ipertrofico che lo ha reso inviso e sospetto a una parte considerevole della società nazionale. Il sentimento patriottico si nutre di vittorie militari e, forse soprattutto, di sconfitte riscattate. Le vittorie italiane non sono state numerose e le sconfitte, purtroppo, demoralizzanti. L’albero del patriottismo cresce rigoglioso là dove la solidarietà nazionale, nel momento delle grandi prove, mette a tacere ogni divergenza. L’Italia, negli ultimi cento anni, è stata teatro di tre scontri civili: il primo durante il biennio rosso (1919- 1921), il secondo dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il terzo negli anni di piombo.
L’amor di patria ha bisogno di leggende condivise. In Italia quelle del Risorgimento e della Grande guerra sono state progressivamente smantellate da generazioni di intellettuali e insegnanti a cui premeva soprattutto dimostrare che l’unità nazionale era tutt’al più una operazione diplomatica, priva di qualsiasi legittimità popolare. Più recentemente, a proposito della Grande guerra, abbiamo avuto la sensazione che la memoria dei disertori fosse più importante di quella delle medaglie d’oro.
La patria ha il volto delle sue istituzioni. Nella storia dell’Italia la monarchia ha avuto molti meriti, ma l’8 settembre ha disperso il capitale di rispettabilità che Casa Savoia aveva accumulato in passato. La Repubblica ha una Carta invecchiata che rispecchia situazioni ed esigenze molto diverse da quelle degli anni in cui fu scritta. Ma è difesa da un quadrato di conservatori che si credono progressisti. Ancora una osservazione, cara signora. Le battaglie vinte di cui si nutre il sentimento patriottico non sono soltanto quelle militari. Oggi, in un contesto alquanto diverso da quello dei nazionalismi e degli interventismi, dobbiamo vincere soprattutto battaglie civili ed economiche: per il risanamento del debito, per la riforma della Costituzione e della giustizia, per il riscatto e lo sviluppo del Mezzogiorno.
Di un Paese che riuscisse a vincere queste battaglie avremmo tutti il diritto e il dovere di andare orgogliosi.
Sergio Romano