Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 31 ottobre
Caporetto, ottobre 1917: grave sconfitta militare italiana ed espressione che simboleggia ancora oggi, nell’immaginario collettivo nazionale, la disfatta per antonomasia. Una capitolazione controversa, un’eredità della Grande guerra degli italiani da rimuovere o addirittura da censurare. Infatti, solo oggi gli storici sembrano concordi nel parlare di grave sconfitta per cause essenzialmente tecnico-militari: più imputabili ad errori degli alti comandi che ad un clima di diffuso disfattismo dilagato nella truppa arresasi o fuggita senza combattere di fronte allo sfondamento subito da parte del nemico. L’odierno garantismo liberaldemocratico contesta l’assoluzione totale dei vertici militari e la colpevolizzazione esclusiva della truppa, tipica di un certo fanatismo militarista antidemocratico. Un riscontro di questa memoria storica non condivisa? L’enciclopedia Treccani 1930 (edita durante la censura militarista della dittatura fascista) descrive la battaglia di Caporetto utilizzando solo l’espressione «ritirata» senza parlare neppure di sconfitta militare, né tantomeno disfatta. Oggi invece, nel clima di trasparenza liberaldemocratica, il Treccani online (vocabolario ed enciclopedia), alla voce Caporetto, parla di grave sconfitta militare divenuta sinonimo di grave disfatta, pesante capitolazione.
Giuseppe Gaudiosi
Caro Gaudiosi, Caporetto è una delle pagine più discusse della storia nazionale italiana. L’evento è stato raccontato e studiato sotto il profilo militare, politico e sociale con una sterminata letteratura composta di saggi, libelli e memorie personali. Ma i toni sono prevalentemente ideologici. I pacifisti se ne sono serviti per denunciare gli orrori della guerra; le opposizione socialiste e repubblicane per celebrare un processo alla monarchia e alla sua casta militare; i critici del Risorgimento per argomentare il fallimento del processo unitario; i pessimisti viscerali (una categoria piuttosto numerosa) per proclamare l’inettitudine dello Stato e delle sue istituzioni. Non ne sono sorpreso. Lo choc provocato dalla rottura del fronte e dal numero dei soldati caduti nelle mani del nemico era inevitabilmente destinato a provocare un dibattito nazionale e un esame di coscienza. Ma gli esami di coscienza sono utili quando sono fatti senza pregiudizi. La storia ideologica di Caporetto ha finito per oscurare un’altra pagina di storia nazionale. Una componente decisiva del Paese ha reagito con un soprassalto di orgoglio e un forte desiderio di rivalsa. Qualche storico militare non manca di mettere l’accento sul contributo degli Alleati con l’invio in Italia di forze britanniche e francesi. Ma i rappresentanti della Francia e della Gran Bretagna, convenuti a Peschiera, non si sarebbero impegnati con forze relativamente limitate, se il colloquio con Vittorio Emanuele III non li avesse convinti che il governo italiano avrebbe fatto il necessario per rovesciare la situazione militare. Anche la reazione del Paese fu generalmente molto positiva. Nelle sue memorie autobiografiche, Iris Origo, una scrittrice anglo-americana che ha passato buona parte della sua vita in Toscana, racconta come i fiorentini accorsero alla stazione di Santa Maria Novella per accogliere e assistere i profughi. In uno di quei treni vi era una parte della mia famiglia friulana, fuggita poche ore prima che le truppe austriache attraversassero il Tagliamento. L’accoglienza a Milano fu ancora più calorosa. La città si mobilitò per accoglierli, alloggiarli, rispondere alle loro prime esigenze. È giusto quindi continuare a parlare di Caporetto. Ma non è giusto che la storia di Caporetto offuschi quella di Vittorio Veneto. Salvemini dice: «Se vi sono due verità e mi permettete di dirne soltanto una mi costringete a mentire».
Sergio Romano