Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi
Perchè è impossibile dire addio al Sud
Aldo Cazzullo Corriere della Sera
Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti – i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato – da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale (esordio il 27 febbraio all’Argentina di Roma).
Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l’autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere – in quanto «fottuto nazionalista» – che avrebbe scelto di arruolarsi con l’esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per
«piantare tricolori
su antiche maledizioni».
Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» – sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano – che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all’idea del Meridione italiano come avanguardia di un’improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari.
Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa “possibilità di prendere congedo”, ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto “oscuro”, ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall’identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore – emigrato ovunque negli ultimi anni – a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l’autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se “i fuoriusciti” e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell’eterno rientro – che è quasi un giorno d’attesa biblica – a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l’incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l’accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali
Difficile da argomentare, ma questo testo è un “addio” ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c’è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato “addio” al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell’inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c’è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l’Ilva, la mattanza criminale degli anni ’80), gli aspetti più “privati” (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l’immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi:
«Prendete tutta questa pornografia dell’incubo d’amore
simboleggiata
dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi
e il piercing, ripeto: il piercing, della
cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due
che forse a Taranto e nemmeno a Lecce
sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing
che al padre dovrà essere parso roba da bestie
all’aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini
sono i paesi
del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo
solo grazie all’antenna parabolica».