Non cambia l’atteggiamento dell’Italia nei confronti delle elezioni europee, tra indifferenza e talk show
Ernesto Galli Della Loggia Corriere della sera 4 maggio
Si poteva sperare che dopo tutto quello che è accaduto le cose cambiassero. Invece no: ancora una volta qui in Italia la campagna per le elezioni europee si sta svolgendo in una generale indifferenza per la vera sostanza dei problemi in gioco. Su che cosa fare in Europa, infatti, tutti i partiti sono in sostanza d’accordo: alzare la voce, battere i pugni sul tavolo, accapigliarsi con la cancelliera Merkel. È circa il che cosa fare della Europa, invece, che il silenzio è assoluto. Dei molti candidati a un seggio nel Parlamento europeo quest’ultima cosa non sembra in verità interessare a nessuno.
Nei talk show televisivi tutti parlanoa ruota libera di un’Europa «dei cittadini», di un’Europa «più democratica» e così via. Così com’è tutto un coro stucchevole di berci contro l’euro (perlopiù da gente che, si capisce a prima vista, non sa neppure di cosa parla). Ma tutto comincia e finisce qui. Non c’è mai nessuno, infatti, che ponga (e risponda) alla questione politica decisiva, che – proprio perché sempre elusa dalle inette élite fin qui padrone dei vertici di Bruxelles – ha portato alla crisi attuale. E cioè: se è vero che è necessario rafforzare la base schiettamente politica dell’architettura dell’Unione, finora troppo sbilanciata in senso economico, quale carattere deve avere tale base? Verso quale Europa politica, insomma? Una federazione? Una confederazione? Un’Unione come quella odierna ma con poteri più forti? E in questo caso quali? E come?
Nessuno lo sa. A queste domande nessun partito sembra interessato a rispondere. E naturalmente viene da pensare che è perché nessuno ne ha la minima idea o forse neppure ci ha mai pensato. Eppure questa, non altra, è ormai la massima questione all’ordine del giorno, non più rinviabile. Anche perché nel frattempo le cose, nel nostro Continente, stanno sempre più prendendo una piega inquietante, destinata, se dovesse proseguire, a mandare tutta la costruzione europea a carte quarantotto. Una piega, peraltro, a me pare, della quale è in larga parte responsabile, paradossalmente, proprio quella che è la principale premessa e l’argomento principe della propaganda ideologica europeista: e cioè l’ostilità di principio, la continua delegittimazione di fatto, dello Stato nazionale.
Con il bel risultato che proprio l’europeismo, nato per unire degli Stati, sembra per ora dare una mano alla loro disintegrazione dall’interno. Valga il vero: dalla Catalogna alla Scozia, dalla Bretagna alla Galizia, dal Veneto alle Fiandre, è ormai tutta un’esplosione di movimenti i quali, partiti con richieste autonomistiche, stanno approdando – o sono già da tempo approdati – al separatismo puro e semplice. Pura coincidenza la contemporaneitàdi questa crescita del separatismo con la diffusione della vulgata europeista? Difficile crederlo.
In realtà, a forza di apprendere fin dai banchi di scuola che la nazione è una pericolosa invenzione intellettuale pregna di umori sessisti e potenzialmente razzisti, di atavismi irrazionali, a forza di ascoltare da tutti i pulpiti ufficiali come lo Stato nazionale sia stato la fonte di tutti i mali anziché forse di qualche bene, quanto esso sia ormai «superato», inservibile, molti ne sono restati convinti. Ma – straordinaria eterogenesi dei fini – invece di trasformarsi, allora, tutti quanti in ferventi europeisti, come supponevano gli apprendisti stregoni dell’ideologicamente corretto (o presunto tale), quei molti hanno preferito ridiventare catalani, sardi, bretoni, gallesi, veneti o che altro. Di fronte a un europeismo impotente a dar vita a una imprecisata Europa sovranazionale, a immaginare per essa strutture politiche vere e fondate sul consenso, ma esclusivamente capace di trincerarsi nell’algida costruzione oligarchico-burocratico di Bruxelles e dietro i suoi precetti snazionalizzatori, di fronte a tutto ciò, insomma, parti crescenti di opinione pubblica sono state spinte a identificarsi sempre più nella propria piccola patria, in quel «noi» dove ci si conosce tutti e si conta pur sempre qualcosa, nella rassicurante protezione del linguaggio, dei volti e degli usi di casa. È così potuto accadere che, tenuto a suo tempo a battesimo dall’alta ispirazione politica dei vari De Gasperi e Schuman, lo spirito sovranazionale dell’Europa si stia rovesciando in un’acrimonia anti statual-nazionale separatista, abilmente sfruttata dalle ambizioni di cacicchi locali, o peggio, pretesto per i propositi violenti di gruppetti di scervellati sul modello dei «Serenissimi» nostrani.