Identità e Toscana
Zeffiro Ciuffoletti Corriere Fiorentino15 giugno 2021
Mario Lancisi ha colto nel segno con il suo articolo di domenica scorsa sui borghi toscani più belli piegati agli stereotipi dei turisti.
Tutti ci chiediamo se sarà un processo irreversibile. La risposta sta nella capacità di governare un fenomeno importante, ma assai più complesso di quanto possa sembrare, specialmente quando si esce dai «borghi antichi» più belli e famosi come quelli citati nell’articolo del Corriere Fiorentino e cioè San Gimignano o Pienza.
Il tema cruciale è quello rilevato da Lancisi: il solo turismo non basta. In un bell’articolo pubblicato recentemente sul Notiziario dei Georgofili, Antonio Guidobono Cavalchini ha presentato le problematiche delle aree interne e di montagna in relazione allo spopolamento. Dal 1990 al 2015, prendendo a modello una valle dell’Appennino LigurePiemontese, il 37% della superficie agraria risulta ormai abbandonato. Grosso modo questo è quello che è accaduto nelle aree montane toscane. Il decremento demografico ha prodotto conseguenze pesanti sull’agricoltura e sull’ambiente con paesaggi degradati, boschi abbandonati, terrazzi incolti. Un processo che sembra inarrestabile nonostante le esternazioni di amore per il verde e per la natura. Persino le località montane, dove ancora permane un tessuto produttivo di piccola agricoltura e allevamento e che potrebbero avvantaggiarsi con la vendita dei prodotti locali ai turisti, soffrono per la crescente perdita di consistenza demografica.
La riscoperta dei borghi, di cui si parla per via delle limitazioni imposte dalla pandemia, dovrebbe essere assecondata dalle autorità locali e regionali con la realizzazione di piste ciclabili, sentieri attrezzati, e con attività agroforestali, in grado di offrire prodotti enogastronomici e artigianali. I territori montani semi spopolati, come è noto, non portano voti, ma potrebbero portare salute per tutti e specialmente vantaggi alla rivoluzione ecologica di cui troppo si parla e poco si fa. Si pensi all’importanza del bosco nell’ecosistema. Il sistema forestale, con i suoi 10 milioni di ettari, deve essere salvaguardato e accresciuto per l’equilibrio socio-economico e ambientale. L’Unione dei Comuni ed Enti Montani se ne è accorta, ma sono le regioni e lo stato che devono spendersi per investire sulle aree marginali e di montagna. Bisognerà, quindi, puntare sul turismo, ma prima di tutto sull’attrattività produttiva di queste aree verdi e ricche di storia, garantendo un’adeguata connettività digitale, ma anche di trasporti, la cura del paesaggio, l’offerta di prodotti locali e di cibo buono, di acqua buona, di aria pura. Non solo per le famiglie, ma anche per i giovani e studenti, come hanno fatto in Spagna con Erasmo Rural, attingendo ai fondi europei. Una grande idea che andrebbe studiata.
La Toscana è ricca di parchi e di aree montane. Anzi si può dire che il bosco, in una regione di antichissimo popolamento antropico come la Toscana, costituisce la migliore testimonianza degli equilibri e della varietà ambientali della regione. Si pensi alle foreste casentinesi, a Vallombrosa, alla montagna pistoiese, al Monte Amiata, al Mugello o al Casentino. I boschi della Toscana, circa ottomila ettari, sono fortemente permeati di valori storici e naturalistici e paesaggistici, frutto della natura, ma anche della presenza e del lavoro dell’uomo. Non si tratta, qui, di proteggere e conservare il «bosco primigenio», ma di conservare e valorizzare il paesaggio forestale con una presenza intelligente e consapevole dell’uomo e delle attività produttive. Un paesaggio ricco di antichi insediamenti, con borghi medievali, castelli, pievi, monasteri, che meritano di essere conosciuti non solo con gli occhi, ma anche con la storia, l’arte, la cultura e «dulcis in fundo» con le tradizioni enogastronomiche. Non solo cibo, ma anche vino, che la viticoltura in Toscana si è spinta in alto, privilegiando le colline e persino i crinali montani.
Dei circa mille miliardi della dote del PNRR destinati al piano nazionale dei borghi per valorizzare il patrimonio custodito nei tanti piccoli borghi di montagna, spesso fragili per via dello spopolamento, una parte andrà riservata alla promozione dell’agricoltura e dell’allevamento che costituiscono la base delle tradizioni alimentari. Si pensi che non c’è minestra che non contenga pane, insieme con verdure o legumi, dai fagioli alle lenticchie, dalle fave ai ceci. E poi l’olio di oliva che ritroviamo nelle alte colline e i crinali bassi di montagna. Così le carni di maiale e di pollo allevati all’aperto oppure ai tanti prodotti della lavorazione del latte di pecora o di mucca: formaggi o ricotte che parlano di pascoli verdi e di pratiche produttive antiche. Tutte le forme di artigianato locali si legano all’agricoltura e all’allevamento, così come i saperi locali si legano al sapore dei cibi. Nello stile alimentare povero di montagna, si ritrovano non solo cibi e sapori dimenticati, ma due altri valori fondamentali: la sociabilità e la salute.
Tante piccole cooperative di produzione, tante piccole aziende, spesso con l’azione trainante di donne, sono nate in questi ultimi anni, ma vanno incoraggiate per la sopravvivenza e il rilancio di cultura che la Toscana non può perdere se non vuol perdere la sua stessa identità.