Sabino Cassese Il Sole 24 Ore 15 febbraio
Aveva 21 anni Piero Gobetti, quando, nel febbraio del 1922, scrisse il saggio che apriva il primo numero de «La rivoluzione liberale», il settimanale da lui fondato e diretto, che ora viene ripubblicato a cura di Pina Impagliazzo e di Pietro Polito quale primo volume di una nuova “collana gobettiana”.
Gobetti, come l’intellettuale avellinese Guido Dorso, con cui fu a stretto contatto, si proponeva di formare una classe politica per assicurare la partecipazione del popolo alla vita dello Stato. Gobetti, come Dorso, partiva dalla constatazione della mancanza sia di una classe dirigente come classe politica, sia di una “coscienza dello Stato”. Lamentava che l’Italia dei Comuni avesse visto “l’esplodere delle passioni, non l’organizzarsi delle iniziative”, per cui vi era stata solo “disgregazione operosa”. Con l’Unità, “al popolo estraneo fu imposta la rivoluzione dall’esterno” e “lo Stato [venne] corroso da un intimo dissidio tra governo e popolo”, un governo fondato sul compromesso e un popolo “in perenne atteggiamento anarchico di fronte all’organizzazione sociale”. Gobetti concludeva: “il problema centrale dello Stato ci è parso problema di adesione del popolo alla vita dell’organismo sociale, problema di educazione politica (non di scuola), esercizio di libertà….” E vedeva la soluzione nella formazione di un partito dei contadini e di un partito operaio, riservando a sé stesso e alla sua rivista il compito di preparare degli spiriti liberi capaci di aderire all’iniziativa popolare, illuminandola ed educandola. Diagnosi lucida, ma controcorrente, programma ingenuo. Che non ebbe il successo sperato. Gobetti scrisse a Croce, Gentile, De Ruggiero, Einaudi, Papini, nonché a Salandra, Burzio, Formentini, Ansaldo, Missiroli, chiedendo commenti, per suscitare una discussione. I primi non risposero. Gli altri o dettero risposte di cortesia ed evasive, oppure reagirono criticamente. E Gobetti prese atto, in brevi repliche, del silenzio degli intellettuali e dei giornalisti, forse presi in quegli anni del dopoguerra, da quel che stava per maturare, il fascismo. Commenti e repliche, apparsi nei fascicoli successivi della rivista gobettiana, sono raccolti nel volume. Bisognerà aspettare vent’anni, la caduta del fascismo, la Seconda guerra mondiale, per vedere l’auspicata «partecipazione del popolo alla vita dello Stato», con il suffragio universale e il regime democratico. Invece, rimangono inattuati gli altri obiettivi indicati da Gobetti, «l’organizzarsi delle iniziative» e la formazione di una classe dirigente capace di “illuminare gli elementi necessari della vita futura (industriali, risparmiatori, intraprenditori) ed educarli a questa libertà di visione”. Proprio perché il disegno gobettiano è rimasto ineseguito è grande il merito del Centro studi Piero Gobetti per avere iniziato questa “collana gobettiana” e per aver promosso, insieme con le Edizioni di storia e letteratura, la ristampa anastatica di tutti i 114 volumi pubblicati dalla casa editrice Gobetti.
Piero Gobetti,Manifesto,
a cura di Pino Impagliazzo e di Pietro Polito,
prefazione di Marco Scavino.
Postfazione di Pietro Polito
Aras Edizioni, Fano
Pagg. 136, euro 11,00