Sabato 30 novembre al Palazzo dei Capitani a Bagno di Romagna in occasione della Festa della Toscana si è tenuto un convegno ABOLIZIONE E RITORNO. Pena capitale, detenzione e tortura nel mondo dall’Illuminismo ad oggi. Pubblichiamo l’intervento di Alessandra Campagnano del Comitato Fiorentino per il Risorgimento
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Il governo dei Lorena nel Granducato di Toscana cominciò nel 1737 con Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa d’Austria, dopo la morte dell’ultimo granduca della dinastia Medici, Gian Gastone. Fu la ricompensa per aver dovuto lasciare la Lorena a Stanislao Leszczynski alla fine della guerra di successione polacca (1733-1738). Non si trattò di un insediamento ordinario, come del resto accadeva dopo la fine delle guerre europee, perché l’Elettrice Palatina, Maria Luisa Anna dei Medici (1667-1743), pose condizioni precise ai successori della sua dinastia, condizioni che puntarono a salvaguardare l’enorme patrimonio frutto del collezionismo della sua famiglia.
L’avvento dei Lorena portò il governo della Toscana nel contesto delle nuove correnti culturali, economiche, politiche e sociali legate all’Illuminismo. In quasi tutta l’Europa si ebbero importanti cambiamenti che videro agire come protagonisti i sovrani che in modo paternalistico miravano a cambiare le strutture dei loro regni. I sovrani illuminati erano in contatto costante con gli intellettuali, i philosophes, anche durante le guerre che travagliarono l’Europa del XVIII secolo. La ragione, unica guida delle scelte personali e politiche, dimostrava che ciò che era stato ereditato dal passato era contrario a ogni possibilità di progresso e sviluppo civile. La Lombardia risentì per esempio positivamente del cambiamento passando dal dominio spagnolo a quello austriaco, cosicché Milano, insieme con Firenze e Napoli, divenne un centro di grande fervore culturale grazie ai fratelli Verri e alla rivista Il Caffè, espressione dell’Accademia dei Pugni, attorno alla quale si raccoglievano spiriti entusiasti di dare il loro contributo alle riforme dell’assolutismo illuminato.
Pietro Leopoldo era cresciuto a Vienna e aveva avuto l’esempio dell’opera di governo dei suoi genitori, anche se quando diventò granduca di Toscana mantenne sempre una sua originalità di pensiero e di azione, consona al carattere peculiare di una regione che insieme ad altri stati italiani con i trattati di pace delle guerre di successione cambiava fisionomia geopolitica. Fin dalla Reggenza in nome di Francesco Stefano e sotto il governo di Pietro Leopoldo che durò fino alla sua partenza per Vienna nel 1790 alla morte del fratello imperatore che non aveva avuto figli, la Toscana visse un profondo cambiamento. Già nel 1753 a Firenze era stata fondata l’Accademia dei Georgofili allo scopo di rendere più produttiva l’agricoltura toscana, accogliendo i dettami della fisiocrazia che vedeva nell’agricoltura liberata dai vincoli feudali la fonte primaria della ricchezza. Con Pietro Leopoldo furono rese più produttive le proprietà fondiarie degli enti ecclesiastici sopprimendo la maggior parte dei conventi e dei monasteri ritenuti non utili al bene comune. Rimasero solo gli ordini religiosi maschili e femminili che si dedicavano alla pubblica utilità come quelli dediti all’istruzione e alla pubblica assistenza. I terreni espropriati vennero messi in vendita e furono acquistati da chi aveva capitali e interesse per farli fruttare con le nuove tecniche di coltivazione e la liberalizzazione dei commerci. Non fu abolita la mezzadria che fu sempre ritenuta dagli agrari toscani la forma migliore di organizzazione del lavoro in campagna. Furono fatti lavori di risistemazione idraulica, come ad esempio la regimazione del lago di Bientina, nel 1788 Vittorio Fossombroni (1754-1844) fu nominato dal granduca sovraintendente alle colmate della Val di Chiana. I successori di Pietro Leopoldo, Ferdinando III e Leopoldo II, continuarono ad avere attenzione per le aree paludose del granducato portando avanti progetti di sistemazione idraulica proseguiti ancora dopo l’unità d’Italia.
Pasquale Romanelli Monumento a Vittorio Fossombroni Arezzo 1863
La riorganizzazione delle proprietà fondiarie si univa a una profonda ristrutturazione amministrativa che coinvolgeva le comunità locali. Fin dalla Reggenza il sistema dello Stato mediceo, che era costituito da implementazioni territoriali e amministrative che si erano stratificate nel corso del tempo, cominciò a essere revisionato aprendo la strada alle riforme dello Stato di Pietro Leopoldo che, sia pure a piccoli passi, tendevano a dare unitarietà alla compagine statale. Si cominciava a smantellare così il sistema sociale basato sul privilegio ereditario e la manomorta, perché i titolari di rendita non erano necessariamente aristocratici o chierici. Il dibattito degli Illuministi sulla modernizzazione dello Stato aveva trovato in Toscana, come si cercava di fare nel Regno di Sardegna, nel Regno di Napoli e in Prussia e in Austria, la sua realizzazione nella centralizzazione dello Stato allo scopo di rendere più efficace l’azione di governo, soprattutto per la riscossione delle tasse. Altro vantaggio fu la liberalizzazione del commercio interno con la riduzione di balzelli e dazi fra un territorio e l’altro che spesso risalivano al Medioevo.
Scipione dei Ricci
La soppressione dei conventi si legava a un’altra riforma non meno importante: quella religiosa. Pietro Leopoldo appoggiò il vescovo giansenista di Pistoia e Prato Scipione dei Ricci e seguì l’esempio del fratello e della madre che avevano riorganizzato l’ordinamento ecclesiastico riducendo notevolmente forme di devozione popolare molto radicate negli strati più bassi del clero e della popolazione ma al limite della superstizione. Lo scopo della riforma mirava a rendere il granducato indipendente dal potere papale che aveva fatto sentire il suo peso con il tribunale dell’Inquisizione anche in tempi recenti. Anche se la riforma religiosa non ebbe il successo sperato, lasciò però tracce nella formazione del clero attraverso i seminari ai quali Scipione de’ Ricci aveva dedicato attenzione a Prato e a Pistoia, la sua diocesi. La tentata riforma religiosa, che colpiva ordinamenti che garantivano agli appartenenti al clero regolare e secolare privilegi come il foro ecclesiastico e il tribunale dell’Inquisizione, si collegava alle riforme amministrative, fra le quali non era esclusa quella della giustizia. L’atteggiamento paternalistico del governo in Toscana, ma anche in Lombardia, pur non abolendo giuridicamente la struttura sociale dell’ancièn regime, portava a vedere i sudditi non tanto divisi per ordini sociali immutabili, ma come soggetti responsabili di fronte al sovrano. Nel Granducato di Toscana il riordino delle proprietà fondiarie e l’impegno di una classe dirigente colta e pronta ad accogliere il nuovo avevano portato a cambiamenti radicali che lo inserivano nel contesto dei paesi europei più evoluti. Dopo i primi provvedimenti Pietro Leopoldo cominciò a elaborare un modo diverso di rapportarsi ai sudditi che avrebbe potuto portare alla promulgazione di una costituzione. Il progetto rimase un sogno di pochi intellettuali perché nel 1790 Pietro Leopoldo tornò a Vienna e nel frattempo era scoppiata la Rivoluzione francese che raffreddò gli entusiasmi dei sovrani illuminati e dei loro collaboratori. La paura fece abbandonare l’ottimismo che aveva caratterizzato il periodo dell’assolutismo illuminato.
Tommaso Crudeli
Il problema dell’amministrazione della giustizia in Toscana si presentava forse più che altrove in tutta la sua gravità perché il granducato durante la Reggenza aveva vissuto un grande dramma umano e giuridico. Si tratta della vicenda giudiziaria del poeta casentinese Tommaso Crudeli (1703-1745) finito sotto accusa del Tribunale dell’Inquisizione per la sua appartenenza alla Massoneria. Ripercorrere sia pure a grandi linee la vicenda di Tommaso Crudeli ci rende ancora più chiara la necessità di una riflessione sul tema della giustizia che interessò chi si occupava della riforma dello Stato. Tommaso Crudeli viveva a Firenze dove nel 1731-1732 era stata fondata la prima loggia massonica in Italia da inglesi che qui vivevano per motivi diversi: erano intellettuali, rappresentanti del governo britannico, commercianti, viaggiatori che si fermavano a lungo in città. Tommaso Crudeli, che dava lezioni di lingua italiana agli inglesi, fu iniziato e ammesso alla loggia nel 1735 e già si era messo in luce per le sue posizioni di libero pensatore e anticlericale. Anche il presidente del Consiglio di Reggenza, il conte de Richecourt, era un fratello come pure il granduca Francesco Stefano. Il 28 aprile 1738 il papa Clemente XII (1652-1740), nato Lorenzo Corsini della nobile famiglia fiorentina, con la bolla In eminenti apostolatus specula aveva condannato la massoneria con la scomunica per i suoi aderenti. Le conseguenze della scomunica erano sempre temute anche da principi come Francesco Stefano: l’interferenza delle autorità ecclesiastiche creava difficoltà nel rapporto coi sudditi e nella politica estera. Quindi Francesco Stefano e Richecourt all’inizio evitarono di intervenire in maniera troppo esplicita in difesa di Tommaso Crudeli. Subito dopo la pubblicazione della bolla papale l’inquisitore toscano mosse all’attacco della loggia massonica fiorentina. Non potendo arrestare gli aderenti stranieri chiese l’arresto dell’abate Buonaccorsi e del Crudeli che era segretario della loggia. Buonaccorsi riuscì ad evitare l’arresto per motivi di salute, mentre Crudeli, pur essendo malato di tubercolosi, fu arrestato il 9 maggio 1739. Gli atti del processo inquisitorio mostrano un uso spregiudicato di tutti gli strumenti che indussero Crudeli ad ammettere la sua appartenenza alla loggia, ma soprattutto ci dimostrano che attraverso il poeta casentinese si voleva colpire la libera circolazione delle idee: le domande più insistenti riguardavano gli ammessi alla loggia, le loro frequentazioni sia a Firenze che a Pisa e Livorno, la circolazione di libri “proibiti”.
La vicenda di Tommaso Crudeli, in prigione fino al 1741, poi liberato per le pressioni di Francesco Stefano e Richecourt ma confinato a Poppi per decisione dell’Inquisizione, dette vigore alle argomentazioni di Giulio Rucellai (1702-1778), segretario del regio diritto, laureato in diritto civile e canonico presso l’università di Pisa e poi docente nella stessa università, anticurialista convinto che dal periodo della Reggenza curò i diritti dello stato contro le pretese della curia romana. Nel 1744 il Tribunale dell’Inquisizione fu chiuso, ma con la venuta di Pietro Leopoldo l’azione di Rucellai fu ancor più incisiva: la sua pubblicazione Memorandum sui diritti della Nunziatura apostolica, dell’Inquisizione e sul diritto di asilo ecclesiastico, nonché sulla necessità e possibilità di diminuire i chierici e i monaci fu la base per i decreti del 1769 che abolirono il diritto di asilo e per l’adozione dell’exequatur che sottoponeva all’approvazione del granduca tutti i provvedimenti giudiziari emessi da paesi stranieri, anche quelli papali, fino ad arrivare nel 1773 all’espulsione dei gesuiti, dopo la soppressione dell’ordine.
Il problema del valore e dell’importanza della pena per il reo fu posto da uno dei rappresentanti più importanti degli illuministi del Caffè a Milano. Era Cesare Beccaria (1738-1794) che espose teorie per l’epoca sconvolgenti nel trattato Dei delitti e delle pene. Frutto dei dibattiti accalorati che si svolgevano nell’Accademia dei Pugni e venivano poi riversati nella rivista «Il Caffè», l’opera era destinata ad avere successo e a suscitare polemiche. La pubblicazione avvenne a Livorno nel 1764, quindi sul finire del periodo della Reggenza, e questo dà la misura della vivacità culturale della città, che per la sua posizione era aperta ai contatti e alle influenze di dibattiti che avvenivano fuori d’Italia, a cominciare dalla Francia. Beccaria era di nobile famiglia e aveva avuto una formazione giuridica all’università di Pavia dove si era laureato in diritto civile e canonico. Il trattato Dei delitti e delle pene è costituito da una prefazione rivolta ai lettori, da un’introduzione e da 47 capitoli in cui si prendono in esame tutti gli aspetti che riguardano l’amministrazione della giustizia. Come i contemporanei illuministi soprattutto francesi Beccaria aveva una concezione contrattualistica dello Stato e delle società: al cap. 1 esordisce dicendo che “Le leggi sono le condizioni, con le quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società”. Così fin dalle prime pagine mette ben in evidenza che è da considerarsi delitto, ossia reato, ciò che è dannoso alla società, non ciò che rimanda a un giudizio religioso. In poche parole, Beccaria distingue tra peccato e reato e allo Stato spetta il compito di perseguire il reato. Si vuole evitare ogni possibile confusione tra l’indagine intesa a “stabilire i rapporti del giusto e dell’ingiusto politico” e quella teologica che “riguarda l’intrinseca malizia o bontà dell’atto”. Da queste premesse scaturisce il principio che le pene devono essere proporzionate al delitto, che il diritto d’asilo non ha motivo di esistere come pure la disparità di trattamento giudiziario per i nobili, come avveniva a loro vantaggio. Ma Beccaria non si limitava a enunciazioni di principio, affrontava in modo preciso tutti gli elementi legati all’indagine, alla pena e al trattamento del condannato. In primo luogo, il fine della pena non è “tormentare ed affliggere un essere sensibile” ma “d’impedire il reo di far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuoverne gli altri dal farne uguali”. Quindi la pena, proporzionata al reato, deve fare un’impressione efficace sugli altri uomini ed essere “la meno tormentosa sul corpo del reo.” Di qui si comprende come Beccaria rifiuti la tortura come strumento per scoprire la verità. E nel cap. 16 afferma che “Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice” e si sofferma sull’inutilità di pratiche che trattano allo stesso modo un colpevole e un innocente pretendendo di scoprire la verità basandosi sulla capacità dell’uno e dell’altro di superare i tormenti fisici. Alla fine – conclude – quello che ci rimette di più è l’innocente. Il capitolo che a suo tempo fu considerato il più sconvolgente fu senza dubbio il 28, dedicato alla pena di morte. “Non è dunque la pena di morte un diritto” nemmeno come deterrente in tempo di pace perché “Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa”. E tuttavia “è meglio prevenire i delitti che punirgli” e per questo sono necessarie leggi chiare e semplici supportate dall’educazione e dal premio della virtù.
Beccaria trovò il sovrano illuminato disposto ad accogliere le sue proposte in “PIETRO LEOPOLDO PER GRAZIA DI DIO PRINCIPE REALE D’UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D’AUSTRIA GRANDUCA DI TOSCANA EC. EC.” che nel secondo capoverso dell’editto promulgato a Pisa il 30 novembre 1786 dichiarava: Con la più grande soddisfazione del Nostro paterno cuore abbiamo finalmente riconosciuto che la mitigazione delle pene congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le ree azioni, e mediante la celere spedizione dei Processi, e la prontezza, e sicurezza della pena dei veri Delinquenti, in vece di accrescere il numero e i Delitti ha considerabilmente diminuito i più comuni, e resi quasi inauditi gli atroci, e quindi siamo venuti nella determinazione di non più lungamente differire la riforma della Legislazione Criminale, con la quale abolita per massima costante la pena di Morte, come non necessaria per il fine propostosi dalla società nella punizione dei Rei, eliminato affatto l’uso della Tortura […]
Il Codice Leopoldino riecheggia in più parti l’ottimismo e il fervore di Beccaria, però non rimase in vigore a lungo. Nel 1790 Pietro Leopoldo si trasferì a Vienna lasciando come successore il figlio Ferdinando III. La sua partenza provocò subito reazioni avverse alle sue riforme. Non solo gli esponenti più conservatori del clero contestavano le riforme proposte da Scipione dei Ricci invocando il ritorno a forme di religiosità tradizionali, ma anche la maggior parte degli aristocratici contestava la liberalizzazione del commercio dei grani e altre riforme economiche sostenendo che erano causa di povertà. Si ebbero disordini un po’ in tutto il granducato, ma soprattutto a Livorno e Firenze. Il Reggente Antonio Serristori cercò di placare gli animi abolendone qualcuna, ma non bastò. Fu così che Pietro Leopoldo, diventato Leopoldo II imperatore del Sacro Romano Impero, prima di insediare Ferdinando III il 22 febbraio 1791, reagì duramente abolendo il Codice Leopoldino e molte altre riforme. Tutto questo dimostra i limiti dell’assolutismo illuminato: il paterno sovrano come concede diritti e promuove buone riforme per il progresso della società così può abrogare tutto. I successori di Pietro Leopoldo – Ferdinando III e Leopoldo II – non riportarono mai in vigore il Codice del 1786: il primo nel 1815 e il secondo nel 1853 nel codice militare ribadirono in modo puntiglioso l’uso delle pene corporali.
Però la memoria di un atto di civiltà che per la prima volta si era affermato in Toscana non venne mai meno: infatti il Governo Provvisorio della Toscana il 30 aprile 1859, dopo la fine del Granducato il 27 aprile, pur ricordando che in realtà dai successori di Pietro Leopoldo non era mai stata applicata, abolì la pena di morte. Già nel 1849 la Repubblica Romana l’aveva abolita. La decisione del Governo provvisorio della Toscana non trovò seguito nel Codice penale dell’Italia unita, ma un movimento abolizionista fu portato avanti da Pietro Ellero (Cordenons 1833 – Roma 1933) e Francesco Carrara (Lucca 1805 – ivi 1888) con la rivista «Giornale per l’abolizione della pena di morte» che uscì fra il 1861 e il 1864. Nel Codice Zanardelli del 1889 la pena di morte fu abolita e rimase soltanto nel Codice militare. Fu ripristinata durante il fascismo nel 1926 e abolita nella nostra Costituzione. Dal 13 ottobre 1994 non è più prevista nemmeno dal Codice militare di guerra ed è stata definitivamente abolita nel Codice militare di guerra con la legge costituzionale N. 2 del 2007. La Repubblica di S. Marino dopo una sospensione dal 1848 al 1853 abolì definitivamente la pena di morte nel 1865 mentre nella Città del Vaticano fu abolita da Paolo VI nel 1969.
Il 18 dicembre 2007 su proposta del governo italiano, per impulso dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, l’Assemblea generale dell’ONU approvò una mozione con la quale si decretava la moratoria che fu approvata con104 voti favorevoli, 54 contrari e 29 astenuti.
Alessandra Campagnano