Arturo Colombo Corriere della Sera del 23 agosto
Molti di noi Carlo Pisacane l’hanno incontrato sui banchi di scuola, quando ci hanno fatto leggere La spigolatrice di Sapri , una poesia di Luigi Mercantini destinata a rimanere impressa nella memoria di intere generazioni di allievi: uno dei versi più ad effetto, per esempio, lo raffigurava come un giovane eroe «con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro».
Ma la figura e l’opera di Pisacane hanno avuto parecchi studiosi, fra i quali Luciano Russi, scomparso troppo presto (1944-2009), di cui esce adesso il volume Studi su Carlo Pisacane, a cura di Adolfo Noto (pubblicato dall’editore Rubbettino, pp. 276, € 18): una raccolta di undici interventi, pubblicati dall’autore fra il 1977 e il 2005, oltre alla sua opera più importante, Carlo Pisacane. Vita e pensiero di un rivoluzionario (Il Saggiatore, 1982).
Questi «studi» danno subito la misura del rigore storiografico, e altresì della ricchezza di interessi, che hanno permesso a Luciano Russi di collocare Carlo Pisacane «entro l’orizzonte della cultura politica nazionale», come sottolinea Leonardo La Puma nella premessa.
Lo dimostrano le pagine in cui Russi mette a confronto Carlo Pisacane e Mauro Macchi, prendendo spunto dal ricordo che proprio il secondo, Macchi appunto, aveva voluto farne sul settimanale torinese «La Ragione» nel 1857, all’indomani della tragica avventura di Sapri.
Fra l’estate del 1851 e la primavera del 1855, entrambi si erano trovati d’accordo su «almeno due fra le questioni più decisive per le sorti della sinistra democratica e rivoluzionaria: la critica antimazziniana e la polemica antigiobertiana».
Tuttavia, è nel rapporto «guerra-pace» che si sostanzia la differenza fra i due, essendo Carlo Pisacane pronto a riconoscere che «la soluzione della questione nazionale non può non passare attraverso il momento della rottura anche militare dello status quo». Con il risultato che il «distacco» trova il suo culmine nell’aprile del ’57, quando Carlo Pisacane «è intento nelle ultime, difficili fasi organizzative della spedizione (preso com’è dal sogno di una possibilità insurrezionale)», mentre Mauro Macchi «si trasferisce a Torino, città sempre più privilegiata da moderati, costituzionalisti, monarchici, repubblicani in crisi».
Non meno limpida è l’analisi delle coordinate teoriche che contrappongono Carlo Pisacane e Giuseppe Montanelli: entrambi in aperto dissenso con il mazzinianesimo «prima, durante e dopo il ’48», e tuttavia portatori di una diversa concezione della democrazia, essendo Giuseppe Montanelli un sostenitore della «democrazia progressiva», mentre Carlo Pisacane è un assertore della «democrazia rivoluzionaria», perché «convinto della necessità di un radicale ribaltamento dell’ordine costituito».
Ma Luciano Russi nel suo volume non si sofferma soltanto su questo tipo di confronti; non meno eloquente è l’analisi che l’autore dedica alla «critica della democrazia», o meglio della «rivoluzione democratica», dopo il fallimento del biennio compreso fra il 1848 e il 1849.
A Carlo Pisacane non interessava tener conto dei «diversi stadi dello sviluppo sociale», come ritenevano indispensabile quanti puntavano soprattutto sulle zone più progredite del Settentrione. E la sintesi che ne fa Luciano Russi mi pare esemplare, quando conclude che «azzerata ogni valenza positiva al modello capitalistico-borghese, diventa conseguente far suonare la diana della rivoluzione al Sud prima che al Nord, nelle campagne prima che nei centri urbani, tra i ceti rurali prima che fra la classe operaia, nel Cilento prima che in Lombardia, a Sapri prima che a Torino».
Tuttavia, anche dopo, il ricorso alla rivoluzione rimarrà un falso rimedio per tentare di risolvere il complesso avvenire dell’Italia.