Elzeviro di Giovanni Belardelli Corriere della Sera 22 maggio
Riletto oggi, La monarchia socialista, il libro più noto di Mario Missiroli che ora torna in libreria a cura di Francesco Perfetti (Le Lettere, pp. 138, €15), può apparire come un testo abbastanza irritante.
I giudizi schematici e paradossali di cui è infarcito (Cavour «clericale», il socialismo«eminentemente reazionario», Pio X «maestro infallibile») sembrano rivolti più a épater le bourgeois, a colpire il lettore di un secolo fa (la prima edizione è del 1914), che ad approfondire davvero i problemi di un’Italia che aveva da poco celebrato il mezzo secolo di vita unitaria.
Ma è un’impressione che bisogna superare, perché questo volume ha comunque avuto un rilievo nell’accreditare una certa,ormai diffusissima, spiegazione dei problemie delle insufficienze di fondo del nostro Paese.
Problemi e insufficienze che Missiroli riconduceva in primo luogo all’impossibilità, per il Risorgimento, di operare quella trasformazione profonda delle coscienze che altrove era avvenuta grazie alla Riforma protestante.
Per questo, secondo lui, lo Stato sorto nel 1861 non era mai riuscito a imporsi come un’entità pienamente autonoma e s’era mostrato da subito incapace di affermare il proprio valore etico di fronte alla Chiesa.
Lo strano titolo – La monarchia socialista- stava a significare che uno Stato intimamente debole, perché non aveva alcuna rivoluzione religiosa alle spalle, era stato salvato dal presidente del Consiglio Giolitti, che aveva saputo depotenziare la minaccia socialista grazie a una politica di apertura al riformismo turatiano.
Il libro non passò certo inosservato, anche se la tesi principale non era nuova. Missiroli la riprendeva soprattutto da Alfredo Oriani; ma in realtà l’idea che lì, nell’assenza di una Riforma protestante, stesse l’origine dei principali mali d’Italia – in primo luogo dello scarso senso civico e della debole etica pubblica che caratterizzavano i suoi abitanti – lo avevano pensato e scritto molti esponenti dell’élite risorgimentale e della classe politica che si era trovata a governare il nuovo Stato nei primi anni dopo l’unità.
Missiroli diede però alla tesi della mancata Riforma una veste nuova e, per così dire, novecentesca;
negli anni seguenti, attraverso Piero Gobetti, che della Monarchia socialista fu grande estimatore, il nucleo centrale di quella tesi passò al filone politico-culturale che si richiamava al Partito d’Azione, fino a diventare un luogo comune dell’autocoscienza nazionale, una specie di spiegazione passepartout per tutti i mali d’Italia.
Si tratta però di una spiegazione tanto apparentemente suggestiva quanto sostanzialmente indimostrabile (per farlo, bisognerebbe poter sostenere che gli stessi limiti che caratterizzano la cultura e i comportamenti degli italiani si riscontrano in tutti i Paesi di tradizione cattolica).
Una simile spiegazione, oltretutto, scoraggia dal cercare in altre direzioni le possibili ragioni di certi tratti profondi della nostra cultura: anzitutto del debole senso civico di un Paese in cui i comportamenti illegali- dalla micro corruzione all’evasione fiscale godono di una legittimazione diffusa.
Ad esempio, riflettiamo raramente su quanto possa aver pesato invece, nella storia della penisola, più che l’assenza della Riforma protestante, la limitata presenza dell’assolutismo.
Cioè, di un forte potere statale capace di affermare la propria supremazia e di disciplinare la società, introducendovi determinati comportamenti, obblighi e regole di vita: tutte cose di cui anche una società democratica ha bisogno, pur non essendo spesso in grado, se non le ha ereditate dal proprio passato, di produrle direttamente.
Magari sembrerà poco progressista imputare a una mancanza del genere certi mali dell’Italia di oggi. Ma potrebbe essere, almeno in parte, vero.