Roma riparta dall’orgoglio per la Breccia
Mario Ajello, Il Messaggero, domenica 13 Settembre 2020
Arrivano nel momento giusto i 150 anni della Breccia di Porta Pia. Perché è adesso – mentre l’Italia deve ricostruirsi dopo l’emergenza Covid e senza sentirsi ancora al sicuro – che la centralità di Roma va ribadita e rilanciata con forza. Nell’interesse di tutti. Scriveva infatti la Gazzetta Piemontese di martedì 13 settembre 1870, il giorno dopo l’ingresso dell’esercito regio nel territorio pontificio: «Posta la capitale a Roma ognun vede che le provincie dell’Italia centrale e dell’Italia meridionale entreranno in una via di progresso tale da raggiungere in pochi anni quello dell’Italia superiore. Allora, grazie a Roma, l’Italia sarà una grande potenza».
Il discorso vale ancora, perfettamente. E guai dunque, come si è spesso tentato di fare, anche con successo purtroppo, a sminuire l’evento di Porta Pia. Perché questo parla al futuro, e nell’antica Breccia c’è la leva – ovvero la centralità di Roma – per il riequilibrio economico e territoriale del nostro Paese oggi e nei decenni che verranno. Si è troppo a lungo cercato di ridurre, per il gusto dell’oblio di natura anti-patriottica, la Breccia di Porta Pia a una «passeggiata militare» con pochi morti e scarsi eroismi. E insomma ci si è dimenticati di celebrarla come si deve, anche prima di questo anniversario ridotto causa Covid, perché vedere e vivere il 20 settembre come una data fondativa della nazione avrebbe significato dare a Roma ciò che è di Roma. Vale a dire il suo valore di «Capitale ineluttabile», come la chiamava Cavour.
E la Breccia non ha fatto breccia nell’immaginario collettivo anche perché lungo la storia le diedero l’importanza che merita personaggi politici come Crispi – a lui si deve nel 1895, nel venticinquesimo anniversario dell’ingresso dei bersaglieri, l’istituzione del 20 settembre come festa nazionale, poi a torto abolita – che sono poco graditi alla cultura mainstream e alla storiografia più andante. Sostiene Hubert Heyriès, storico di valore che ha appena pubblicato per il Mulino il saggio «La Breccia di Porta Pia»: «C’è una sottovalutazione dell’evento, per motivi ideologici. Gli storici cattolici hanno avuto difficoltà a inoltrarsi in un terreno insidioso per la Chiesa e per la religione, cioè la fine del potere temporale del Papa. Mentre gli intellettuali di sinistra non hanno mai amato una campagna militare condotta dall’esercito regio, braccio armato della borghesia e strumento di repressione sociale. Un movimento assai diverso dalle rivolte popolari del 1848 o dalle spedizioni garibaldine». Quelle in cui il Generale diceva «O Roma o morte!» e che, nella divertita ridicolizzazione successiva, è diventata «O Roma o Orte!».
Ma c’è molto poco da ridicolizzare, figuriamoci. I 150 anni della Breccia servono a ricordare – a chi non vorrebbe e arriva al punto di esaltare l’impresa dei Mille in quanto nordista: «Erano per lo più bergamaschi!», questa la cantilena leghista – che il Risorgimento ebbe il suo culmine con la presa di Roma. Alla quale parteciparono soldati lombardi, piemontesi, toscani, napoletani, mescolati in un’impresa – anteprima della Grande Guerra – che era nazionale e non più piemontese e che aveva Roma come simbolo spirituale oltre che come obiettivo militare e politico. Questo centocinquantenario serve insomma a ritrovare le ragioni che portarono un Paese a riconoscersi in questa città. E sono ragioni tuttora validissime. Spiritosamente Francesco Saverio Nitti, grande statista liberale, si chiedeva nel 1868, due anni prima della Breccia, come potesse stare insieme un Paese in cui «una metà lo chiama pesce e l’altra metà uccello». E Roma era già lì in mezzo a mediare. Senza averne poi, e ancora oggi è così, i riconoscimenti sperati e meritati. Anzi, a 150 anni da quei fatti, a Roma si chiedono solo doveri – rappresentare l’Italia senza poter contare su poteri speciali – e non le si riconoscono diritti. A cominciare da quello del rispetto attivo da parte dei vari governi nazionali, della partecipazione comune di tutti gli italiani al suo lustro, dell’identificazione piena della nazione nella sua Capitale, della necessità di dotare anche di risorse speciali – no, Roma non è come Foggia! – una metropoli che non ha nulla di normale. Il problema è che Roma è troppo pesante e ingombrante per una Paese che si sente troppo fragile e che stenta a capire un’evidenza: non potrà mai spiccare il volo senza farsi accompagnare e dirigere dalla città che dà il senso alla sua storia.
Lo avevano capito 150 anni fa statisti illuminati. Uomini di governo e non governatori più o meno nordisti (mentre quelli sudisti dovrebbero rileggersi il Mazzini dell’«Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà»). Ripartire dalla Breccia, ecco. Ossia riconoscere la regia di Roma e attivarsi perché funzioni. Senza cadere nei revanscismi territoriali e provincialotti. Senza illudersi che le piccole patrie e le piccole invidie possano essere spacciate per modernità autonomistica. Senza rimpiangere vetero clericalismi, perché ad essere battuta il 20 settembre fu l’ultima trincea della più assolutistica e forcaiola concezione del potere e della società, che coagulava intorno a sé ogni sorta di ostilità alla civiltà moderna.
E se Roma mala-amministrata ormai è tutta una grande breccia, ciò non deve diventare un’inutile lagna ma uno stimolo a tornare all’ardore lungimirante di Porta Pia.