Giovanni Belardelli
Il Foglio Quotidiano 3 settembre 2022
Nelle bancarelle che qua e là per l’Italia vendono vecchi giornali e riviste, francobolli e cartoline d’epoca, non è difficile acquistare per pochi spiccioli uno almeno dei tre francobolli (da 25 cent., 1 lira e 2 lire e mezza) raffiguranti i volti di Attilio ed Emilio Bandiera, i giovani mazziniani protagonisti nel giugno 1844 di una disperata spedizione in Calabria che valse, a loro e ai loro compagni, la fucilazione.
I fratelli Bandiera
A ricordare con un’emissione filatelica questi due personaggi ormai quasi dimenticati (ma gli dedica ora un bellissimo capitolo del suo Otto vite italiane, Marsilio, Ernesto Galli della Loggia) fu nel 1944, per la prima e ultima volta nella storia nazionale, la Repubblica sociale italiana. Potrebbe sembrare strano, ma non lo è affatto. Al di là dell’occasione rappresentata allora dal centenario della morte dei Bandiera, il piccolo episodio testimonia di quel ritorno di fiamma mazziniano che caratterizzò il fascismo di Salò, che – pur asservito all’occupante tedesco e in una situazione di guerra civile – credette o finse di credere in un ritorno al repubblicanesimo delle origini come reazione al “tradimento” del re.
Ma in realtà un po’ tutto il fascismo fu percorso fin dall’inizio da simpatie mazziniane, ed è questo un capitolo poco noto della fortuna di Mazzini nella storia italiana che – a centocinquant’anni esatti dalla morte – merita d’essere ricordato. Furono continui i riferimenti al fondatore della Giovine Italia fatti per tutto il Ventennio da Giovanni Gentile che ad esempio, nel manifesto degli intellettuali fascisti da lui redatto nel 1925, scrisse che il nuovo regime ritornava alle “idee politiche, morali e religiose” di Mazzini. Dal mazzinianesimo venivano anche figure importanti del fascismo: Italo Balbo, per fare solo un nome, aveva fatto la sua tesi di laurea sui Doveri dell’uomo di Mazzini. Ma anche Mussolini non era rimasto impermeabile a qualche influsso mazziniano visto l’ambiente che aveva frequentato nella sua iniziale carriera politica da socialista rivoluzionario: quel sovversivismo romagnolo caratterizzato appunto da marcate simpatie, spesso da un vero e proprio culto, per Mazzini.
Uno dei maggiori storici italiani del secondo Dopoguerra, Delio Cantimori, ricorderà di avere lui stesso aderito da ragazzo al fascismo sognando che questo avrebbe fatto la rivoluzione repubblicana, insieme sociale e nazionale, di Mazzini. Dopo di lui molti storici hanno fatto (e a volte continuano a fare) fatica a riconoscere la presenza di queste simpatie mazziniane nel regime, ma sbagliano per almeno due motivi.
Il primo, ovvio, è che il passato – se non vogliamo scivolare anche noi nella cancel culture– è passato e non è nella disponibilità degli storici o di chicchessia cambiarlo per renderlo compatibile con le proprie idee. Può non piacere il fatto che in nessun periodo come durante il Ventennio si sia tanto scritto – e con toni generalmente molto elogiativi – di Mazzini, ma così è stato. Il secondo motivo per cui la reticenza di cui dicevo è un errore sta in questo: proprio il fatto che si siano richiamati a Mazzini intellettuali e politici di diverse e spesso opposte tendenze dimostra l’influenza forse unica che questi ha avuto nella nostra storia.
Non diversamente del resto da quel che è accaduto per Marx, visto che si proclamavano marxisti sia Lenin sia il Kautsky da lui violentemente attaccato come “rinnegato”; e che marxisti furono sia Rosa Luxemburg sia il ministro della Difesa della Spd Gustav Noske, tra i responsabili del suo assassinio.
Naturalmente, va detto che se il fascismo trovava in Mazzini elementi di pensiero che sentiva come congeniali – il richiamo quasi religioso alla nazione, la critica del Risorgimento come rivoluzione interrotta che il fascismo intendeva completare facendo entrare le masse nello stato, la critica della lotta di classe e altro ancora – c’erano pure elementi fondamentali del pensiero mazziniano che i fascisti ignoravano completamente, a cominciare dall’idea di un’umanità formata da nazioni indipendenti e libere. Fatto sta che perfino la partecipazione alla seconda guerra mondiale – qualcosa dunque che sintetizzava perfettamente il carattere militaristico e aggressivo del regime mussoliniano – poté essere giustificata come l’occasione per unificare l’Europa come vaticinato più di un secolo prima da Mazzini. Idea ovviamente inverosimile, questa di una nuova Giovane Europa costruita grazie alle armate hitleriane, ma qualcuno lo sostenne; la storia è fatta anche di questi paradossi e di queste illusioni.
Il quasi dimenticato “mazzinianesimo fascista” ci dice allora anche un’ultima cosa, cioè che la storia – e la storia delle idee in modo particolare – non è mai in bianco e nero ma è fatta di chiaroscuri, di influenze molteplici e contraddittorie. Tra esse cito un piccolo episodio che riguarda il giovane Luciano Della Mea – futuro partigiano ed intellettuale di spicco, negli anni 60, della sinistra extraparlamentare – il quale nel 1941 si arruolava in guerra da fascista convinto, com’era diventato – ricorderà molti anni dopo – anche grazie a Mazzini e Garibaldi. E proprio sull’eroe dei due mondi si potrebbero fare considerazioni analoghe a quelle fatte per Mazzini, a partire dalle grandi celebrazioni fasciste del 1932, nel cinquantenario della morte, quando il Duce dichiarò che le camicie nere erano figlie delle camicie rosse. Era vero, era falso? Anche in questo caso, un po’ entrambe le cose.