Autrice di numerosi saggi e pubblicazioni, in particolare sulla storia dell’Ottocento, Simonetta Michelotti dell’Università di Siena ( dipartimento di Scienze Storiche, Giuridiche, Politiche e Sociali illustra in questo scritto una delle figure luminose del Risorgimento, a riprova – tra l’altro – del contributo straordinario dato da tante donne italiane alla realizzazione dell’Unità nazionale.
Raffaella Luigia Faucitano (1818-1881*) fu testimone e interprete del suo tempo a fianco del marito Luigi Settembrini (1813-1876), di cui divenne custode degli scritti conservando in particolare le lettere che questi le inviò dal carcere sull’isola di Santo Stefano. Qui Luigi fu imprigionato tra il 1851 e il 1859 a seguito della sua attività di opposizione politica al regime borbonico nel Regno delle Due Sicilie. La Faucitano ebbe un ruolo importante non solo nella vita privata di Settembrini, aiutandolo moralmente nei momenti di maggiore sconforto durante la reclusione, ma anche come punto di contatto, si potrebbe quasi dire come ‘agente di collegamento’, tra il marito (e altri detenuti politici sull’isolotto pontino) e personaggi importanti del Risorgimento italiano, quali Agostino Bertani e Antonio Panizzi.
‘Gigia’, vezzeggiativo con il quale la chiamava il marito, occupa un posto rilevante all’interno delle Ricordanze della mia vita di Settembrini. Vi sono riportati anche due suoi racconti che, seppure filtrati attraverso la penna di Luigi, offrono la testimonianza di Gigia su alcune vicende della famiglia Settembrini strettamente legate ad avvenimenti politici nel decennio precedente l’unità d’Italia. E nel primo dei due racconti si comprende come Gigia intendesse consapevolmente lasciare traccia delle loro vicissitudini a metà tra vita privata e impegno politico, esprimendo la volontà di fissare anche la sua memoria a fianco di quella del marito già ampiamente presente in scritti di denuncia, arringhe difensive e, successivamente, nelle lettere dall’ergastolo di Santo Stefano: lo scopo era di lasciare il racconto in eredità ai figli, Raffaele e Giulia, «che un giorno impareranno a soffrire con coraggio e dignità».
Luigi e Gigia si incontrarono per la prima volta casualmente per le vie di Napoli nel 1834, lei una giovinetta di sedici anni, lui un ventunenne che aveva da poco terminato gli studi.
Luigi aveva ricevuto dal padre Raffaele, avvocato napoletano, un’educazione improntata a principi illuministici e morali che rimasero sempre alla base della sua attività intellettuale e politica. Dopo un breve periodo di studio e pratica della legge, il giovane Luigi preferì dedicarsi allo studio delle lettere: fu allievo di Basilio Puoti che nel 1825 fondò a Napoli la Scuola di Lingua Italiana dove studiò anche Francesco De Sanctis.
Quando Luigi la vide per la prima volta, Gigia era accompagnata da una monaca e gli apparve come «un’angeletta». Quell’immagine, seppure fugace, colpì profondamente il giovane letterato e la giovane gli rimase impressa «nella mente e nel cuore», come scrisse successivamente nelleRicordanze. Gigia era destinata a entrare in convento e conduceva una vita molto ritirata: per questo motivo, nonostante i due giovani abitassero nelle vicinanze, trascorse un anno intero prima che si incontrassero nuovamente. Nel frattempo Luigi aveva chiesto informazioni su Raffaella Luigia e aveva appreso che lei stessa non disdegnava la prospettiva di ritirarsi in convento, dove avrebbe potuto coltivare la sua grande passione per il ricamo e trovare protezione per la sua timidezza. D’altra parte i Faucitano erano molto devoti e di origini modeste: la decisione di preparare Raffaella Luigia alla vita monastica rappresentava la soluzione ideale per il futuro della giovane, soddisfacendo la religiosità della famiglia e risolvendo il problema economico della dote.
* La data della scomparsa di Raffaella Luigia Faucitano non è indicata uniformemente. Qui si adotta l’indicazione di Mario Themelly, massimo studioso di Luigi Settembrini.
La notizia che il destino della giovinetta era il convento indusse Luigi a rompere gli indugi e si presentò dai Faucitano per chiedere la mano della loro figlia. Inizialmente la famiglia di Giga si dimostrò piuttosto incerta nell’accettare la richiesta di Luigi che era sì un giovane di buona famiglia e un promettente studioso ma dal futuro ancora incerto. Infatti, egli stava studiando per sostenere il concorso per l’insegnamento e non aveva ancora i mezzi per mantenere una famiglia. I Faucitano promisero la figlia in sposa solo a patto che Luigi si fosse fatto una posizione. Ciò dette una spinta in più al giovane Settembrini: all’ambizione di insegnare le materie classiche che aveva così appassionatamente studiato si unì quella di sposare Gigia: «Avevo davanti a me due premi – scrisse nelle Ricordanze – una cattedra e la mia Gigia».
Tuttavia la pressione sul giovane raddoppiò e non mancarono i momenti di sconforto e sgomento nei quali si interrogava: «Ma sarò io professore?». E ancora: «E se nell’esame io mi confondo?». Già in quei momenti di normale titubanza e incertezza giovanili trovava conforto in Gigia che gli infondeva sicurezza, rassicurandolo che tutto sarebbe andato per il meglio. E infatti il 18 agosto 1835 Luigi vinse la cattedra di retorica al liceo di Catanzaro e l’8 ottobre dello stesso anno sposò Gigia. Fu una cerimonia modesta e la coppia si trasferì nella città calabrese dove già vivevano i fratelli di Luigi, Peppino e Giovanni. Il giorno delle nozze Gigia aveva diciassette anni.
Tutta la gioventù e l’inesperienza della giovane coppia nella vita familiare emerge dai racconti della nascita del primogenito Raffaele, che i due neogenitori non sapevano neanche come prendere in braccio o come placarne il pianto: avevano timore perfino nel toccarlo. Il quadro familiare che tratteggia Luigi nelle Ricordanze non lascia intuire di quali avvenimenti sarebbero stati protagonisti lui e la moglie, insieme al piccolo Raffaele, negli anni a venire.
Raffaele era nato l’8 aprile 1837. Nel corso di quell’anno Luigi aderì ai «Figlioli della Giovine Italia» di Benedetto Musolino. L’incontro tra Settembrini e Musolino rappresentò un punto di svolta nella vita della giovane coppia.
Ponendo insieme i principi illuministici ricevuti dal padre, il modello morale dei classici studiati alla scuola del Puoti e le prime influenze patriottiche, Settembrini era cresciuto in un ambiente in cui predominavano la ragione, l’etica e la visione di un’Italia non più espressione geografica come la definì il Metternich. Durante il soggiorno dei Settembrini a Catanzaro queste idee si concretizzarono in una prima forma di opposizione al dispotismo del corrotto regime borbonico attraverso l’attività segreta dei «Figlioli della Giovine Italia». Si trattava di una sètta piuttosto eterogenea nelle finalità: Musolino era un repubblicano mentre Settembrini era fautore del progetto più moderato di una monarchia costituzionale a cui giungere gradualmente senza rivoluzioni. Tuttavia, i due condividevano l’aspirazione alla giustizia e a un governo civile: le parole su cui giuravano gli adepti nel rito di iniziazione erano «unità, libertà, indipendenza». L’attività dei «Figlioli» era comunque limitata alla sola zona del catanzarese.
Per l’affiliazione a questa sètta Settembrini fu arrestato per la prima volta il 9 maggio 1839 a Catanzaro e trasferito a Napoli nella prigione di Santa Maria Apparente dove rimase fino al 25 ottobre 1843 pur senza essergli stata inflitta alcuna condanna.
Fu così che Gigia si ritrovò improvvisamente da sola con il piccolo Raffaele di soli due anni e incinta di cinque mesi della secondogenita Giulia. Gli eventi la costrinsero a compiere un veloce processo di maturazione: era lei adesso il capofamiglia e non aveva nessuno con cui condividere la responsabilità di crescere il figlio.
Subito dopo l’arresto di Luigi, Giga si trasferì a casa del cognato Peppino. Intorno a lei, moglie di un sovversivo, l’ambiente si era fatto ostile: le rimase accanto solo Angiolina, sorella di Filippo Marincola, studente di Luigi, futuro parlamentare italiano e studioso di economia calabrese. Quando Luigi fu trasferito nella prigione napoletana di Santa Maria Apparente, Gigia compì un atto di grande coraggio e fedeltà coniugale: decise di seguire il percorso del marito incarcerato. Angiolina, che le rendeva visita ogni giorno, cercò di dissuaderla dal lasciare Catanzaro nella convinzione che Luigi vi avrebbe fatto presto ritorno, ma Gigia non intese ragioni e intraprese il lungo viaggio per Napoli, incurante dei disagi per sé e per il figlio. I due impiegarono otto giorni per raggiungere la capitale del Regno delle Due Sicilie. Per trovare i soldi necessari al viaggio Gigia vendette tutto ciò che possedeva a Catanzaro, tranne i libri, e una volta giunta a Napoli tornò ad abitare nella casa dei genitori nel quartiere di Montesanto.
Gigia ricevette il permesso di visitare Luigi in carcere dopo trentadue giorni di detenzione, durante i quali Settembrini non aveva ricevuto alcuna notizia della famiglia. Quando un custode delle carceri lo informò della visita della moglie, Luigi rimase profondamente stupito, poiché era convinto che Gigia fosse rimasta a Catanzaro presso i cognati.
«Ora che ci siamo bisogna sofferire con dignità – disse Gigia al marito quando poté finalmente riabbracciarlo – sta dunque di animo sereno e forte, e fa che io possa gloriarmi di essere tua moglie». Luigi rimase molto colpito da queste parole: «Non avevo inteso mai mia moglie parlare così», scrisse nelle Ricordanze. Come durante la preparazione del concorso a cattedra le parole di Gigia lo confortarono, sollevandolo dai disagi della prigionia e svelandogli una nuova persona: erano i prodromi della trasformazione da ‘angeletta’ timida a moglie coraggiosa, dal carattere forte e severo, che fu di sostegno alla famiglia e al tempo stesso seppe svolgere un ruolo importante nella cospirazione.
Settembrini era sempre in carcere quando nacque Giulia, l’11 agosto 1839. La neonata aveva sofferto dei disagi della madre negli ultimi mesi di gravidanza ed era una bambina tutt’altro che florida. A Napoli poi Gigia era costretta a vivere in ristrettezze economiche. Pochi giorni dopo aver partorito, portò la piccola Giulia a visitare il padre in prigione: questi rimase molto colpito dalle misere condizioni della piccola.
Fu al termine del primo processo a Luigi che ebbe inizio l’attività ‘politica’ di Gigia. Settembrini era stato assolto poiché la polizia borbonica non era stata in grado di costruire un’accusa credibile. La decisione del tribunale non era stata presa in nome della giustizia, ma per mettere il ministro di Polizia Francesco Saverio Del Carretto in una posizione scomoda davanti al re Ferdinando II. Del Carretto, per rivalsa, si oppose alla scarcerazione di Settembrini. Gigia prese l’iniziativa e decise di chiedere udienza al re per denunciare l’ingiustizia a cui era sottoposto il marito, detenuto senza alcun motivo. L’usciere maggiore del re, Giovanni Lombardi, e altri membri della corte oppositori di Del Carretto fecero in modo che Gigia venisse ricevuta da Ferdinando II. Giunta al cospetto del sovrano, Gigia ebbe il coraggio di dire al re che non riteneva giusta la mancata scarcerazione del marito. E’ facilmente immaginabile la sorpresa del re a una tale affermazione, tant’è vero che questi non dette una risposta precisa (né prese però provvedimenti nei confronti di una donna che aveva avuto l’ardire di parlare così!), dicendole solamente che la decisione non spettava a lui bensì al ministro di Polizia. Ancora una volta Gigia non si perse d’animo e riuscì a farsi ricevere anche da Del Carretto. Da questi ebbe una risposta precisa: «Ma lo sapete, o signora – le disse il ministro – che anche dopo il giudizio io posso tenere in carcere vostro marito non solo per due anni ma per dieci, e mandarlo dove voglio?». Questa esperienza doveva segnare Gigia, che si scontrò con un concetto di giustizia che era ben differente dalla giustizia senza codici a cui era stata educata.
Luigi tornò in libertà solo il 25 ottobre 1842, dopo quasi quattro anni e mezzo di detenzione arbitraria, e gli fu vietato di rientrare a Catanzaro. Tutta la famiglia si stabilì a Napoli presso i genitori di Gigia e Settembrini si dedicò all’insegnamento privato, avendo perso la cattedra e il diritto all’insegnamento a seguito dell’arresto. La scelta di rimanere a Napoli era già di per sé espressione della volontà di non cessare la lotta politica: dalla capitale del regno Settembrini sapeva di avere la possibilità di osservare da vicino le malefatte dei Borboni: da quel momento l’opposizione politica prevalse sull’attività di studioso. Si trattava comunque di un’opposizione intellettuale: l’indignazione che si scatenò in Settembrini nel vedere le prevaricazioni e la corruzione del regime di Ferdinando II trovò sfogo nel pamphlet dal titolo Protesta del popolo delle Due Sicilie, pubblicato clandestinamente nel luglio 1847. Si trattava una condanna morale, prima ancora che politica, dell’operato della corte borbonica. Il pamphletebbe un’ottima distribuzione e sollevò la repressione della polizia: Settembrini fu costretto a rifugiarsi in esilio a Malta e tornò a Napoli solo nel febbraio 1848. Il mese precedente, a seguito di moti popolari, il re aveva concesso la costituzione e si credette in un miglioramento della situazione politica.
Il 1848 fu un anno di profondi turbamenti politici in molti stati pre-unitari: la borghesia ne fu la forza trainante con il proprio malcontento nei confronti dei sovrani assoluti a cui si aggiunsero le aspirazioni nazionali, talvolta localiste come nel caso della Sicilia che si sollevò chiedendo l’indipendenza da Napoli.
L’assolutismo borbonico si era caratterizzato anche per un’estesa corruzione e malaffare, come aveva denunciato Settembrini, e Ferdinando II rischiò di rimanerne travolto. Quando scoppiò l’insurrezione di Napoli (27 gennaio 1848), il re si trovò tra la pressione del colpo di Stato che stava progettando il Del Carretto e i moti della piazza. Per timore della rivoluzione Ferdinando II esautorò il potente ministro di Polizia e fu costretto a concedere una costituzione (28 gennaio) che però non prevedeva il regime parlamentare mantenendo la centralità del potere esecutivo seppure con caratteri moderati.
Pur con questi limiti Settembrini accolse con favore la costituzione del gennaio 1848 come strumento per porre fine ad abusi e ingiustizie. Carlo Poerio, amico di Settembrini da lunga data, fu nominato ministro della Pubblico Istruzione e invitò Luigi a ricoprire il ruolo di capo di dipartimento di quel ministero. Dopo poco più di quaranta giorni, il 13 maggio 1848, Settembrini si dimise, accorgendosi che il nuovo clima costituzionale era solo di facciata. Due giorni dopo le sue dimissioni vi fu lo scontro istituzionale tra il re e il parlamento che portò alle barricate del 15 maggio. Fu contestata la formula di giuramento del nuovo parlamento che si apriva quel giorno, ma in realtà si trattava solo di un pretesto dietro al quale si celava la volontà dei parlamentari di imprimere una svolta democratica facendo divenire l’assemblea un organo costituente, aperto a recepire riforme e modifiche provenienti dal basso anche in opposizione alla costituzione concessa dal sovrano.
L’insurrezione fu repressa nel sangue e il fallimento di questa ‘rivoluzione parlamentare’ indusse Settembrini, insieme a Filippo Agresti e Michele Pironti, a fondare la «Grande Società dell’Unità italiana» nel giugno 1848. Scopo dell’associazione era adoperarsi per liberare la penisola dalla tirannia dei despoti interni e dal giogo delle potenze europee: una volta liberata, l’Italia doveva essere unita, forte e indipendente. La nuova sètta ambiva a collegarsi a sodalizi analoghi a Roma, Torino, Milano, Venezia, Firenze, Palermo e Cagliari. Tramontata la possibilità di una riforma interna al Regno delle Due Sicilie, tutte le speranze erano riposte nel Piemonte di Carlo Alberto che aveva concesso la costituzione (lo Statuto Albertino) nel marzo 1848.
Per l’attività della sètta «Unità italiana» Settembrini fu arrestato una seconda volta il 23 giugno 1849 a seguito della repressione che seguì i fatti dei mesi precedenti. Si trattò di un provvedimento preventivo: non gli fu contestato un reato specifico – se non quello di opinione – e durante il processo fu accusato di essere stato il mandante di un attentato incendiario avvenuto nel settembre dello stesso anno mentre era in carcere.
Il processo durò sette mesi, dal giugno 1850 al gennaio 1851: Settembrini sostenne da sé la propria linea di difesa che ebbe toni più politici che legali. Con la sua oratoria smontò tutti i capi di accusa, basati quasi esclusivamente sui ‘si dice’ di delatori prezzolati, ma nonostante la validità delle sue argomentazioni fu condannato a morte il 1° febbraio 1851.
Gigia accolse la sentenza con dignità e fierezza: poche le lacrime che versò e chiese ai figli lo stesso comportamento. Una forza d’animo che lasciò comunque spazio a momenti di umana debolezza: «La sera [dopo la sentenza] – confessò Gigia al marito – dovetti pormi a letto perché mi sentiva aggravata la testa da forte dolore». Ciò non le impedì di attivarsi subito per cercare di opporsi alla condanna di Luigi: convinse le mogli di Filippo Agresti e Salvatore Faucitano, anch’essi condannati alla pena capitale, a unirsi a lei nel tentativo di incontrare nuovamente il re.
Venuta a sapere che Ferdinando II in quei giorni si trovava a Caserta, Gigia si procurò una carrozza e insieme ai suoi figli, alle mogli e ai figli degli altri due condannati si mise in viaggio. Giunti a Caserta nel cuore della notte furono costretti a dormire nella carrozza, poiché nessuno voleva rischiare di inimicarsi la polizia dando alloggio alle famiglie di tre condannati a morte. Il re si rifiutò di riceverle e Vincenzo, il fratello di Luigi sacerdote, suggerì alla cognata di rivolgersi al cardinale Giuseppe Cosenza, arcivescovo di Capua, affinché si adoperasse per fare avere loro un incontro con Ferdinando II. Ciò dette nuovo slancio alle speranze di Gigia e delle altre che subito si diressero a Capua.
L’odissea non era ancora terminata: l’arcivescovo scrisse una lettera al re chiedendo alle tre donne di recapitarla al vescovo di Caserta, che a sua volta l’avrebbe fatta avere al re. L’intercessione dei due prelati andò a buon fine e l’intraprendenza di Gigia fu premiata: il 4 febbraio la pena capitale a carico di Settembrini, Agresti e Faucitano fu commutata in ergastolo. Quello stesso giorno Gigia poté incontrare Luigi: «Erano le nove del mattino – ricordò successivamente Gigia – quando ti rividi vivo e ti abbracciai. Tutti piangevano, io sola non piangeva, e ti guardava perché temeva ancora di perderti».
Il 6 febbraio 1851 Luigi e gli altri condannati ‘politici’ giunsero nel carcere sull’isola di Santo Stefano dove rimasero fino al 17 gennaio 1859.
Fu soprattutto durante il periodo di reclusione di Luigi a Santo Stefano che emerse l’importanza di Gigia come custode dei suoi scritti e come collegamento tra i ‘politici’ sull’isola e coloro che dall’esterno cercarono di mettere in atto piani per farli evadere.
Appena giunto a Santo Stefano, profondamente colpito dai disagi affrontanti per arrivare a destinazione e dalla mancanza di alloggi ‘civili’, Luigi scrisse alla moglie scoraggiandola dall’andare e fargli visita in carcere. In precedenza Gigia aveva dimostrato di non pensarci su due volte a raggiungere il marito prigioniero: per questo motivo Luigi le illustrava le difficoltà nell’intraprendere il lungo viaggio per mare da Napoli a Santo Stefano e la mancanza di un luogo adeguato che potesse accoglierla sull’isola se non una taverna. Inoltre, i visitatori erano sottoposti ad attente perquisizioni prima di poter incontrare i detenuti: Luigi non voleva esporla a una tale umiliazione.
Ma Gigia resistette solo pochi mesi: per chi aveva viaggiato otto giorni da Catanzaro a Napoli incinta di cinque mesi e con un bambino piccolo o per chi aveva trascorso una notte in carrozza a Caserta, le difficoltà illustrate da Luigi non erano insormontabili. Nel luglio 1851 Gigia affrontò il suo primo, lungo viaggio a Santo Stefano, via Ischia e Ventotene. Ne seguirono altri.
In quegli anni cinquanta le preoccupazioni di Gigia non erano indirizzate solo al marito, ma anche ai figli. Soprattutto al primogenito Raffaele, giovane molto irrequieto. Questi, alla condanna del padre all’ergastolo, aveva trovato accoglienza in Gran Bretagna presso Antonio Panizzi, patriota modenese che si era trasferito a Londra dove lavorava come assistente bibliotecario presso il British Museum, di cui poi divenne direttore generale nel marzo 1856. Amico di famiglia dei Settembrini, Panizzi aveva accolto lo scapestrato Raffaele perché studiasse in un ambiente che non risentisse delle condizioni politiche del padre. Grazie all’intercessione di Panizzi, Raffaele fu ammesso in una scuola dello Yorkshire. Tuttavia il giovane non riuscì ad adattarsi alla rigida disciplina britannica e fu invitato ad abbandonare la scuola con grande disappunto di Panizzi. Rientrato in Italia Raffaele si arruolò nella marina sarda come marinaio semplice e prese il mare nell’agosto 1854.
Tramite Panizzi, Gigia entrò in contatto con Agostino Bertani, medico mazziniano che partecipò alle Cinque giornate di Milano, all’esperimento della Repubblica romana del 1849 e dopo l’unità divenne leader della sinistra estrema. Bertani e Panizzi videro in Gigia il collegamento ideale tra loro e i ‘politici’ a Santo Stefano per far giungere ai reclusi notizie dall’esterno. In particolare, Gigia fu importante nel comunicare le notizie relative alla tempistica di ben due tentativi di evasione che Bertani e Panizzi cercarono di organizzare dall’esterno e gli strumenti necessari ai reclusi per aprire un varco nelle celle.
Alla fine del 1854 i ventidue ‘politici’ sull’isola furono spostati in due celle con finestrelle sul mare: ciò fece pensare alla possibilità di organizzare una fuga. Fu così che Gigia dovette dividersi tra l’attività di supporto a questi tentativi e la vita familiare: nell’agosto 1855, mentre si adoperava per inviare ai detenuti informazioni sul piano di evasione e gli strumenti per aprirsi un varco nel muro delle celle, era anche impegnata nella preparazione del matrimonio della figlia Giulia con il giurista Enrico Pessina.
Del piano di evasione studiato a tavolino da Panizzi era stato informato anche Giuseppe Garibaldi. Inoltre, l’iniziativa godeva dell’appoggio diplomatico di William Henry Temple, ambasciatore britannico a Napoli e fratello di Lord Palmerston, uno dei politici di maggior spicco della Londra ottocentesca. Il piano prevedeva il noleggio di un vapore in Gran Bretagna, che sarebbe entrato nel mar Mediterraneo dallo stretto di Cadice per risalire verso l’isola di Santo Stefano lungo una rotta tracciata dallo stesso Garibaldi. Un suo uomo di fiducia, Felice Orrigoni, avrebbe comandato la nave, avvicinandosi il più possibile all’isola in una notte senza luna per poter imbarcare i fuggiaschi. Il vapore avrebbe poi portato i ventidue evasi in Gran Bretagna. Sempre e comunque impegnata anche sul fronte familiare, Gigia avrebbe raggiunto Luigi in esilio solo dopo il matrimonio di Giulia.
Nella lunga fase preparatoria del piano di evasione, Gigia fu impegnata a ricopiare le istruzioni ai detenuti in caratteri minutissimi e con inchiostro simpatico all’interno di lettere al marito che nascondeva nella biancheria, nelle suole delle scarpe e altri oggetti che spediva regolarmente sull’isola. Gli strumenti da scasso, invece, furono nascosti nel doppio fondo di una cassa che conteneva viveri di varia natura. In questo caso Gigia fu aiutata da Cesare Corea, ex allievo di Luigi a Catanzaro, che le era stato vicino anche nel periodo in cui Settembrini si era rifugiato a Malta.
Marito e moglie avevano già avuto modo di sperimentare sistemi di comunicazione clandestina durante il primo periodo di reclusione di Luigi a Santa Maria Apparente. Così Settembrini racconta la tecnica utilizzata nelle Ricordanze:
Il giorno appresso [la prima visita in carcere di Gigia] mi mandò il pranzo: trovai in fondo alla bottiglia di vetro nero un pezzettino di lapis, e dopo due giorni un rotolino di carta bianca. La bottiglia fu la nostra valigia. Riuscita la prova della carta bianca, mia moglie faceva così: scriveva sopra un pezzetto di carta e ne lasciava bianca la metà, ravvolgeva stretta tutta la carta, la legava, poi l’avvolgeva in una fronda verde, la fermava in fondo alla bottiglia, e sopra versava il vino. Io bevevo il vino, spiccavo con la cannuccia della pipa la carta che dentro trovavo asciutta, scrivevo sul pezzo bianco, la fermavo nel modo stesso. I custodi non ebbero mai il pensiero di mettere gli occhi nel fondo della bottiglia che era sempre delle più nere. Così ci scrivemmo sempre, io sapevo tutto, e in quelle letterine trovavo un grande conforto.
Durante l’ergastolo di Santo Stefano fu invece utilizzato l’inchiostro simpatico. Ai primi di settembre 1855, mentre fervevano i preparativi per il primo tentativo di evasione, accadde che Luigi rimproverò Gigia perché nel risparmiare spazio sul foglio di carta aveva scritto una riga sopra l’altra. Fu anche invitata a utilizzare una «soluzione un po’ più carica» di inchiostro simpatico. Inoltre, nelle lettere che i due si scambiavano era utilizzato un codice così che Temple era ‘Lo Zio’, George Fagan (collaboratore di Temple all’ambasciata britannica) era ‘Il Nipote’ e Panizzi era ‘Antonietta’. Per ‘convento’ si intendeva il carcere e, di conseguenza, gli ergastolani erano ‘le monache’. In questo modo Gigia comunicò alle ‘monache’ la data prevista per l’arrivo del vapore sotto le finestre delle loro celle e i segnali convenuti per il riconoscimento.
Il piano per far evadere i ventidue ergastolani fallì perché il 26 ottobre 1855 il vapore Isle of Thanet naufragò poco dopo la sua partenza a causa di una forte tempesta.
Mentre Panizzi non si dava per vinto e cercava di organizzare un nuovo piano, Gigia tornò a dedicarsi alla famiglia per alcuni mesi. Oltre al matrimonio di Giulia, il 1856 la vide correre al capezzale del figlio. Raffaele aveva partecipato alla guerra di Crimea (1854-1856) come effettivo della marina sarda, guadagnandosi anche una medaglia. Nel giugno 1856 rientrò a Genova gravemente ammalato di tifo.
Non fu impresa facile per Gigia neanche recarsi a Genova al capezzale del figlio. Infatti, la polizia borbonica l’aveva posta sotto rigida sorveglianza dopo la condanna del marito e nel 1854 rischiò di essere esiliata. Fu grazie all’intervento dell’ambasciata britannica a Napoli, e in particolare di Fagan, che a Gigia fu rilasciato il passaporto necessario per recarsi nel Regno di Sardegna. Risolte le questioni burocratiche rimaneva comunque da affrontare un viaggio per mare che durò tre giorni, toccando i porti di Civitavecchia e Livorno. A complicare la situazione ci si mise anche il mare in burrasca. Una volta giunta a Genova, Gigia impiegò ben due ore per trovare l’ospedale dove era ricoverato il figlio che sapeva essere in fin di vita. Quando finalmente giunse al capezzale di Raffaele, lo assistete per venti giorni durante i quali Gigia fu ospitata dal generale Angelo Mengaldo, amico di Panizzi, ex-combattente della prima guerra d’indipendenza a Venezia e tra coloro che avevano organizzato il piano di evasione degli ergastolani nell’autunno 1855. E’ probabile che sia stato lo stesso Mengaldo a informare Gigia delle condizioni di salute del figlio, poiché aveva preso sotto la sua ala protettiva Raffaele dopo il suo ritorno dalla sfortunata esperienza nella scuola inglese. Quando Raffaele fu in grado di lasciare l’ospedale, madre e figlio furono accolti in una casa di proprietà del letterato e patriota Terenzio Mamiani in attesa che il giovane si ristabilisse dalla malattia che lo aveva quasi ucciso.
Ma anche durante le settimane genovesi dedicate al figlio, Gigia rimase una testimone del suo tempo. Settembrini riporta nelle Ricordanze un episodio narratogli dalla moglie e accaduto durante la sua permanenza nella città ligure:
Un giorno il generale [Mengaldo] mi disse: “vengono i soldati di Crimea, e si festeggia il loro ritorno: giacché vi trovate in Genova bisogna vedere questa festa”. Andai con lui, e non so dire quanto fui commossa a vedere quel soldati, a udire quella gente che gridava “viva l’Italia e viva l’esercito”. A vedere sventolare le bandiere tricolori mi si velarono gli occhi, e stavo per cadere. Il generale disse: “vi sentite male?” “Sì”, risposi: “qui si festeggia quella bandiera e quei colori che a Napoli sono colpa: la colpa per la quale mio marito è all’ergastolo”.
Saputo che Raffaele era ormai convalescente, Bertani e Panizzi chiesero a Gigia di rientrare a Napoli: i due lavoravano già da alcuni mesi a un nuovo piano di evasione e Panizzi scrisse a Gigia ai primi di luglio del 1856, invitandola a riprendesse l’attività clandestina di collegamento con gli ergastolani. Lasciare Raffaele le «straziava l’anima», come raccontò a Luigi, ma fu il figlio stesso, a cui Gigia chiese consiglio, a incoraggiarla a tornare a Napoli per essere d’aiuto al padre.
Il 10 luglio Gigia era già nella capitale borbonica, pronta a tessere nuovamente la sua trama tra gli ergastolani e il duo Bertani-Panizzi.
Quando sembrava che tutto fosse nuovamente pronto per ritentare l’azione con un nuovo vapore, noleggiato non senza incontrare difficoltà economiche ed organizzative, l’ambasciata britannica ritirò il proprio appoggio e dette l’ordine ai cospiratori di fermare il piano. Ai primi di agosto 1856 la situazione politica internazionale induceva a pensare a un cambiamento e si sparse la voce che Ferdinando II stesse pensando a un’amnistia o almeno a un indulto. Fu Temple in particolare a prospettare un’evoluzione in questo senso e a invitare Bertani e Panizzi a riflettere se valesse la pena correre il rischio di un’azione così ardita quando poteva essere trovata una soluzione più semplice. Sulla posizione di Temple forse influirono anche altre questioni politiche collegate alla posizione internazionale della Gran Bretagna, come pure il fatto che l’ambasciatore si era ammalato e aveva dovuto lasciare Napoli: fu proprio poco prima di spegnersi (morì il 24 agosto 1856) che Temple disse a Panizzi, che si era recato al suo capezzale, di sospendere ogni operazione.
Anche Gigia iniziò ad avere qualche perplessità sul piano di evasione di cui aveva parlato con Temple prima che questi lasciasse Napoli. Il 19 ottobre 1856 Gigia scrisse una lettera a Bertani in cui prevedeva una crisi politica interna al regno borbonico che avrebbe portato a un’amnistia per i politici. A questo punto il piano di evasione fu abbandonato del tutto e Gigia tornò a fare la madre… ma fino a un certo punto.
Nella tarda primavera del 1858 Gigia si recò nuovamente a Genova dal figlio che stava attraversando un momento difficile della sua vita. Dopo aver superato la malattia, Raffaele si rese conto che nella marina sarda non avrebbe avuto un futuro: non essendo cittadino sardo non poteva divenire ufficiale, e ciò rappresentava una limitazione per le ambizioni del giovane. Lasciata la marina militare, Raffaele aspirava a divenire capitano di marina mercantile: ma ancora una volta dovette confrontarsi con l’impossibilità di sostenere gli esami a Genova sempre per la mancanza della cittadinanza.
La situazione apparve paradossale a Gigia: dopo tutto Raffaele aveva militato quattro anni nella marina sarda dal 1854 al 1858, aveva combattuto in Crimea, eppure tutto questo non era sufficiente per ottenere la naturalizzazione a piemontese. E per risolvere una questione che riteneva soprattutto burocratica, decise di andare a Torino a parlare con Cavour. Dopo tutto era riuscita a farsi ricevere, in passato, da Ferdinando II e dal Del Carretto.
Dapprima chiese l’aiuto di Mamiani, ancora suo punto di riferimento a Genova, ma questi non riuscì a farle avere un incontro con Cavour. Ci riuscì invece Lorenzo Valerio, esponente della sinistra piemontese. Fu così che nel maggio 1858, Gigia e Raffaele Settembrini furono ricevuti dal Conte: il giovane Settembrini aveva già incontrato Cavour durante il suo soggiorno in Inghilterra a casa di Panizzi e Luigi era conosciuto per la sua opposizione ai Borbone. Durante l’incontro, Cavour rimase sul vago rispetto alla richiesta di cittadinanza di Raffaele ma pose ai due precise domande di carattere politico. Così Luigi riporta lo scambio di battute nelle Ricordanzecome riferitogli dalla moglie:
[Cavour disse]: “E così che si fa in Napoli?” “Si soffre, signor conte. Voi avete un re galantuomo, noi abbiamo una belva”. Il Cavour si commosse e soggiunse: “Ci sono molti che desiderano il Murat?” “Io posso assicurare Vostra Eccellenza che sono pochi”. “E vostro marito?” “Mia marito mi ha scritto molte volte che egli vuole meglio il Borbone che il Murat: perché l’uno è un male vecchio e paesano, e l’altro sarebbe un male nuovo e forestiero”. “Davvero?” “Oh, sì, né egli né lo Spaventa accetterebbero il Murat”. “Dunque meglio restare nell’ergastolo?” “Essi dicono che è meglio non per loro, ma pel nostro paese”. “E in che sperano dunque?” “Nel re galantuomo”. Il Cavour mi guardò sorpreso, e dette alcune altre parole mi accomiatò con molta cortesia.
Si trattava ancora una volta dell’intreccio curioso tra questioni familiari e attività politica che dal primo arresto di Luigi caratterizzò la vita di Gigia. In questa circostanza colse l’occasione per illustrare a Cavour le posizioni moderate e nazionaliste di Luigi: l’opposizione alle pretese al trono dello straniero Murat e la speranza di una monarchia costituzionale di cui fosse garante Vittorio Emanuele, ‘re galantuomo’.
Al suo rientro a Genova da Torino, Gigia apprese che la figlia Giulia stava per partorire e chiedeva alla madre di ritornare a Napoli. Ma le autorità borboniche non desideravano affatto il suo rientro: la polizia era convinta che Gigia si fosse recata a Genova e poi a Torino come elemento di collegamento per qualche complotto politico e temevano che al suo ritorno potessero verificarsi azioni dimostrative contro Ferdinando II.
Per poter superare questo ostacolo, Gigia ricorse ancora ai suoi contatti importanti nel Regno di Sardegna: questa volta fu Nino Bixio a prendere a cuore la sua situazione e la affidò a Paolo Fassiolo, un uomo di estrema fiducia che in passato aveva accompagnato Giuseppe Mazzini in due suoi viaggi in Svizzera. Così Gigia viaggiò sotto falso nome (e passaporto) come la moglie di Fassiolo. Lo stesso giorno in cui fu stabilita la partenza della ‘coppia’, anche Bixio e Raffaele partirono per un’altra destinazione per sviare le spie borboniche che tenevano sotto controllo i Settembrini.
Il fatto che Bixio si prendesse la briga di organizzare il viaggio di Gigia e la scelta di affidarla alla guida che era stata di Mazzini dimostra il rispetto e la rilevanza politica di cui godeva la moglie di Settembrini negli ambienti patriottici. Il viaggio fu lungo: il primo tratto fu percorso in diligenza da Genova a Pisa, poi in treno da Pisa a Siena e da qui l’ultima tappa fino a Napoli in vettura. Per sviare i sospetti sulla destinazione finale, la ‘coppia’ sostava un giorno o due in ogni città per fare credere di essere in viaggio di piacere.
Il caso volle che durante il viaggio, nei pressi di Gaeta, Gigia incontrasse il corteo reale con a capo Ferdinando II. Per far passare il sovrano e il suo seguito, tutti gli altri viaggiatori dovettero fermarsi al bordo della strada. Mentre il re borbone passava tra due ali di folla e le donne ne ammiravano la prestanza fisica, Gigia lo guardò con fierezza dicendo tra sé: «Tu mi hai condannata all’esilio e io sono qui, e ti guardo, e vengo a sfidarti».
Nel frattempo Luigi era sempre all’ergastolo: da due anni ormai si vociferava di una probabile amnistia per i ‘politici’ ma fu solo nel gennaio 1859 che Ferdinando II decise di dare l’ordine di deportare in America alcuni detenuti. Ufficialmente l’atto di clemenza era stato adottato nell’ambito delle celebrazioni per il matrimonio del figlio del re, Francesco, ma in realtà erano dettate dall’esigenza di placare le pressioni internazionali sulla corte borbonica che dal 1852 era sotto accusa per le condizioni disumane in cui erano tenuti i reclusi ‘politici’. Settembrini fu inserito nel primo scaglione di prigionieri che lasciarono Santo Stefano, a bordo delloStromboli, insieme ai due liberali moderati Carlo Poerio e Silvio Spaventa. La destinazione della nave era Cadice dove ad attendere i deportati vi era il piroscafo statunitense Stewart, che li avrebbe portati a destinazione.
A Cadice però c’era anche Raffaele che, dopo le delusioni con la marina sarda, si era nuovamente trasferito in Gran Bretagna divenendo ufficiale della marina mercantile britannica. Raffaele riuscì ad imbarcarsi sullo Stewart con alcuni amici facendosi assumere come addetti alle cucine. Dopo la partenza da Cadice, il giovane Settembrini riuscì a impossessarsi della nave, costringendo il comandante a far rotta verso l’Irlanda. Sbarcati nel porto di Cork, gli ex ergastolani poterono rifugiarsi in Gran Bretagna dove li attendevano altri patrioti italiani che vi si erano rifugiati in precedenza.
Luigi Settembrini rientrò a Napoli all’ingresso delle truppe garibaldine il 7 settembre 1860 e fu tra i sostenitori dell’annessione immediata al Piemonte. Tuttavia, a conclusione del processo di unificazione, rimase deluso dalla mancata crescita politica e morale del Mezzogiorno che egli si attendeva dall’applicazione del modello piemontese. Nonostante le sue critiche alla politica di accentramento del nuovo regno d’Italia, che riteneva penalizzasse l’ex regno borbonico, prestò la sua opera come ispettore generale all’Istruzione. Conseguì anche la cattedra di Letteratura italiana all’Università di Napoli tornando così a dedicarsi all’insegnamento e agli studi letterali. Il 6 novembre 1873 fu nominato senatore del Regno per iniziativa del compagno di prigionia Silvio Spaventa (in quegli anni ministro dei Lavori Pubblici nel governo Minghetti) e la relazione fu presentata da Terenzio Mamiani, indicato nei documenti del processo alla «Grande Società dell’Unità italiana» come il capo della sètta. Settembrini morì tre anni dopo a Napoli all’età di 63 anni.
Con l’unità d’Italia e il ritorno del marito a Napoli la missione politica di Gigia si era conclusa e poté finalmente dedicarsi a una tranquilla vita borghese. Si chiudeva così il percorso che aveva visto il «fiorellino di sedici anni» incontrato per la prima volta da Luigi in moglie e madre coraggiosa e con una certa dose di sfrontatezza. A rileggere adesso le soavi descrizioni della giovane uscite dalla penna di Luigi si stenta a credere che si tratti della stessa persona:
Dal primo giorno che divenimmo marito e moglie – riporta Luigi la testimonianza della moglie nelle Ricordanze – altro non ricordiamo che carceri, persecuzioni, condanna a morte ed ergastolo […] La tua povera Gigia non ha avuto altro nel mondo che un’anima instancabile nel soffrire: e pare che la natura mi abbia fatto così perché io era destinata compagna di un uomo che dovea soffrire tutta la vita.
Anche Gigia ne aveva sofferto, ma solo nel fisico, non nella volontà di rimanere saldamente al fianco del marito non solo nella veste di moglie ma anche di compagna di lotta. Il suo ultimo impegno in questo senso fu divenire custode degli scritti di Luigi, di cui curò la stampa e fu sempre vigile che, dopo la sua scomparsa, la sua memoria non andasse perduta.
Simonetta Michelotti