La vocazione nazionale del Pci
Antonio Polito Corriere della Sera 5 febbraio 2020
Il 20 marzo del 1956 nacque Pietro, il secondo figlio di Luciana Castellina, dirigente della Federazione giovanile comunista, e di Alfredo Reichlin, vice direttore dell’«Unità». La puerpera si era lasciata convincere da un compagno, Lello Misiti, che era stato in Francia a studiare la tecnica e doveva dimostrare che funzionava, di praticare il parto indolore. «In Unione Sovietica avevano inventato il parto indolore, sulla base degli studi sui riflessi condizionati, e questa cosa aveva fatto molto scalpore, tanto che il Papa aveva scomunicato tutti coloro che non solo lo avessero praticato ma anche solo ne avessero parlato. Questo fece sì che la Sezione femminile del Pci e l’udi si impegnassero a sostenere la novità».
Così chiedono a lei di «fare da cavia». Quando le vengono le doglie va al Policlinico, dove uno scettico primario di ginecologia, suo vecchio amico, la mette «in un anfiteatro chiamando tutti gli assistenti, gli infermieri, dicendo: adesso ci divertiamo a vedere il parto indolore». «In quel momento — racconta Luciana Castellina — ho capito qual è il meccanismo di difesa dalla tortura, perché quando uno ha una grande carica ideologica riesce anche a controllare il dolore. Io non so se sono stata male o non sono stata male, fatto sta che sapevo che non potevo gridare perché ne sarebbe andato di mezzo il prestigio dell’unione Sovietica, del Partito comunista, dell’Udi, e la carriera di Lello Misiti».
Ecco, per capire che cosa sia stato il Pci, che incredibile impasto di vita privata e militanza politica, di dedizione cieca e primato della ragione, bisogna leggere l’intervista di Luciana Castellina pubblicata nel volume edito dalla Treccani Alfredo Reichlin. Una vita. Dal giorno di quel parto, che tra l’altro coincide con la pubblicazione del rapporto segreto di Nikita Krusciov su Stalin, ne è passato di tempo. Ma nonostante le vicissitudini, le separazioni, gli scontri, le sconfitte e le innumerevoli svolte che hanno travolto quel mondo, Alfredo Reichlin è rimasto per tanti, anche esterni alla storia del Pci, una figura di riferimento, stimato per la sua acutezza, e per una tormentata intelligenza sempre alla ricerca di vie nuove.
Alfredo Reichlin è stato infatti innanzitutto un intellettuale. Apparteneva a quella generazione di giovanissimi, «che erano stati quasi tutti fascisti» e che il segretario del Pci Palmiro Togliatti, dopo la svolta di Salerno, promosse in incarichi di rilievo per costruire il suo «partito nuovo». Il modello era la figura di Giaime Pintor, di sei anni più vecchio di Alfredo, il quale era stato compagno di banco del fratello Luigi Pintor al liceo Tasso (come ricorda nel suo saggio Mariuccia Salvati, curatrice del volume).
E questo imprinting accompagnò poi Reichlin per tutta la sua lunga vita. «Era un togliattiano lui, e restò tale fino alla fine», sostiene Emanuele Macaluso, che condivise questa origine ma ha poi seguito altre strade. Nel Partito democratico, per esempio, Reichlin pensava di «poter introdurre l’idea del partito che aveva Togliatti, cioè il partito della nazione; ma non con l’interpretazione che ne è stata data, di partito pigliatutto: per lui era il partito per la nazione, cioè con un ruolo nazionale».
Nonostante le molte battaglie di Alfredo (quella meridionalista da dirigente del Pci in Puglia, quella contro il partito armato, quelle giornalistiche da direttore di «Rinascita» e dell’«Unità»), questa idea del «partito della nazione», una costante del suo pensiero nel mezzo delle mille trasformazioni succedute allo scioglimento del Pci, è quella che è rimasta di più nel dibattito politico, ancora oggi. Roberto Gualtieri ricorda che comparve per la prima volta in una nota che Reichlin spedì a Massimo D’alema dopo la sconfitta del 2001, e in cui sosteneva «la formazione di un soggetto politico nuovo capace di fare coalizione e di esercitare egemonia, di governare non solo dall’alto, un partito più nazionale, più country party, per fare quello che fece la Dc nel dopoguerra, elaborare una cultura e una visione delle riforme da realizzare insieme con le forze nuove dell’Italia».
Da questo punto di vista Reichlin fu certamente un precursore del Pd, anche se molte delle sue speranze sono andate deluse. Ma la sua inquietudine intellettuale, la sua ricerca continua, sono «i tratti caratterizzanti di un comunista segnato più dalla missione etica e nazionale (risorgimentale) di cui il suo partito doveva farsi carico che non dalle dottrine e dalle pratiche proprie del movimento cui apparteneva», come scrive nell’introduzione del volume Giuliano Amato. Un vecchio comunista, certo, ma che non parve mai davvero vecchio. Forse perché era legato — come ricorda nel volume Amartya Sen — «più al Marx umanista che al determinismo divenuto dottrina del comunismo praticato».