Antonio Carioti Corriere della sera 24 agosto
Nel marzo del 1915 Renato Serra definiva la prima guerra mondiale nella quale l’Italia sarebbe presto entrata, una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile.
Non pensava affatto che la storia d’Europa potesse uscirne modificata essenzialmente: al termine dello scontro, scriveva non sarà cambiato lo spirito della nostra civiltà.
Né tantomeno lo studioso cesenate, nato nel 1884, riteneva che il conflitto potesse correggere il tratto dominante del carattere nazionale italiano, la vitalità del branco, attaccato alla sua terra, alle sue cupidigie, al suo lavoro e al suo dolore. Insomma, sarebbe rimasta intatta la quasi animalità sorda e irriducibile con cui i nostri connazionali perseguivano i loro interessi particolaristici.
Eppure, in una missiva indirizzata alla amico Giuseppe dopo aver proclamato che la guerra non cambia niente, il suo Esame di coscienza di letterato incluso con altri scritti e lettere nel volume Tra le nuvole e la luna fresca a cura di Luigi Bonanate ( Aragno) si conclude celebrando la passione di andare insieme, di marciare con altri uomini in divisa affratellati da un destino solo.
Più tardi, in una missiva indirizzata all’amico Giuseppe De Robertis poco dopo l’inizio dell’ostilità, il 9 giugno 1915, ora inclusa nella raccolta Lettere dal Fronte (Elliot) con un’introduzione di Massimo Onofri, Serra affermava che gli italiani, al termine della prova, avrebbero dovuto riprendere la loro storia fondandola su un principio che è la prima condizione della forza e della fortuna: il rispetto della verità.
Non sarebbe stato così, ma Serra ucciso poco dopo sul Podgora, il 20 luglio 1915, dal fuoco austro- ungarico, non avrebbe potuto constatarlo.
Certo, colpisce sempre il fascino sottile, ma possente, che la guerra esercita anche sulle anime più sensibili, aliene dalla retorica bellicista.