Non c’entra con Hitler. Fu un realista spietato, ma assomigliava a Cavour
Paolo Mieli Corriere della Sera 27 novembre
A porre per prima il tema di una continuità tra Bismarck e Hitler, il fondatore dello Stato tedesco e il sanguinario dittatore del Novecento, fu la «cartolina di Potsdam», che allineava i profili di Federico II, del creatore della Germania unita e del più spietato despota del XX secolo. Hitler, in effetti, al suo ingresso in politica si presentava come il «nuovo Bismarck». In un comizio ai veterani del fallito colpo di Stato del novembre 1923, il dittatore nazista (nel decennale del tentato putsch) attribuì al «cancelliere di ferro» l’originaria concezione di quelli che sarebbero stati i suoi propositi: «Il nome di colui che ha fondato questo impero lo conoscete tutti… non è democrazia, è Bismarck. Un individuo ha dato al popolo tedesco un nuovo Reich e, cosa ancor più importante, con il nuovo Reich, ha dato al popolo tedesco un nuovo orgoglio nazionale, una nuova concezione dell’orgoglio nazionale». Hitler, appena preso il potere, si autoproclamò dunque erede di Bismarck. In parte perché temeva di non essere accettato dagli autentici epigoni di Bismarck. Fu questo genere di preoccupazioni che ispirò la «giornata di Potsdam», il 21 marzo 1933: il maresciallo von Hindenburg e il neo cancelliere Hitler presero parte a una cerimonia davanti alla tomba di Federico II nella Garnisonkirche e, per l’occasione, fu data alle stampe la cartolina di cui si è detto che — alla maniera in cui i russi celebravano la continuità tra Marx, Engels, Lenin e Stalin — presentava la discendenza del nuovo dittatore dai fondatori del Reich.
Fu anche per colpa di quella cartolina che in questo dopoguerra il fondatore (nel 1871) dello Stato tedesco, Otto von Bismarck, è stato più volte presentato dagli storici alla stregua di un precursore di Adolf Hitler. In modo più sofisticato, nel 1946, da Friedrich Meinecke che, ne La catastrofe della Germania (La Nuova Italia), pose la questione in questi termini: «Lo svolgimento della Prima guerra mondiale, e poi della Seconda, ci impone di chiederci se i semi della tragedia futura non fossero già presenti nel Reich bismarckiano». Domanda a cui Meinecke rispondeva positivamente, a dispetto dei tentativi di altri storici, quali Gerhard Ritter, Hans Rothfels, Franz Schnabel, di tenere ben distinta l’immagine di Hitler da quella di Bismarck. Ancora negli anni Sessanta il nesso di Meinecke fu riproposto da Fritz Fischer nel libro Assalto al potere mondiale (Einaudi), che approfondiva le responsabilità della Germania nello scoppio della Grande guerra, tratteggiando, appunto, una linea di continuità tra il Reich bismarckiano e quello hitleriano. E, in termini assai più sottili, da Hans-Ulrich Wehler, il quale in Nazionalismo. Storia, forme, conseguenze (Bollati Boringhieri) ipotizzava che, instaurando un potere fondato sul carisma personale, Bismarck avesse bloccato l’evoluzione della Germania verso la democrazia e aperto, di conseguenza, la via a Hitler. Più rozzi i modi in cui pose la questione il russo Arkadij Samsonovic Erusalimskij, che stabilì un rapporto di continuità tra «i due cancellieri» fin dal titolo di un suo celebre libro: Da Bismarck a Hitler. Tra l’altro questo saggio fu proposto in Italia dalla casa editrice del Partito comunista, Editori Riuniti, arricchito da una prefazione di Ernesto Ragionieri che plaudiva incondizionatamente alle argomentazioni del collega moscovita. A rafforzare, pur in modo non esplicito, la tesi di uno stretto legame di discendenza tra i due cancellieri venne poi, nel 1965, un discorso di Willy Brandt, nel quale l’esponente socialdemocratico fece sue le tesi di Wehler: «Per l’evoluzione democratica della Germania», disse, «Bismarck, con la sua rappresentazione di uno Stato al di sopra dei cittadini, fu una sciagura».
Ci volle, nel 1980, il monumentale Bismarck di Lothar Gall (Rizzoli) per tracciare una linea di netta demarcazione tra i due grandi protagonisti della storia tedesca. Bismarck e Hitler, documentò Gall, erano agli antipodi l’uno dell’altro. E, cosa assai importante, il modo di Gall di guardare alla storia della Germania fu fatto proprio, nel mondo comunista, da due insigni storici della Repubblica democratica tedesca: Ernst Engelberg e Ingrid Mittenzwei. Il cambiamento di giudizio aveva contagiato anche la sinistra. Ancor più esplicito in questo genere di lettura del passato tedesco è ora Jean-Paul Bled, nel Bismarck che sta per essere pubblicato dalla Salerno editrice. Le considerazioni iniziali di Hitler su Bismarck, scriveva già Lothar Gall, erano solo «tattiche». Nella sua marcia verso il potere, a Hitler era necessario «essere inquadrato nella tradizione prussiana». E ancora nel 1932, quando il Partito nazionalsocialista ottiene il 30 per cento dei voti, Hitler ritiene che, per arrivare alla Cancelleria, gli sia indispensabile «un’alleanza con i nazionalisti tedeschi depositari di tale tradizione». La composizione del suo primo governo, in cui siedono diverse personalità vicine alla corrente dei nazionalisti conservatori, riflette tale preoccupazione. Di qui il richiamo costante a Bismarck. Ma, sottolinea adesso Bled, già alla fine degli anni Trenta Hitler manda in soffitta l’immagine di quello che fin lì aveva presentato come un suo precursore.
L’allontanamento dei generali von Blomberg e von Fritsch consente al capo nazista di rimettere in riga l’esercito: omaggi a Bismarck torneranno solo in occasione dell’Anschluss (l’annessione dell’Austria al Reich nel 1938) e, l’anno successivo, con il battesimo di una corazzata che portava il nome del cancelliere prussiano. Nel contempo, la sua grande statua, che fino ad allora aveva troneggiato davanti al Reichstag, veniva «relegata nell’anonimato del Tiergarten». Poi «pian piano il silenzio cala intorno al grande cancelliere». Il suo culto verrà alimentato non negli ambienti hitleriani, bensì in quelli dei cospiratori che, guidati da Claus von Stauffenberg, il 20 luglio del 1944 ordiranno un colpo di Stato per disfarsi di Hitler.
Va messo in chiaro una volta per tutte, scrive Bled, che «quando Hitler annette l’Austria al Reich e dichiara di aver portato a termine l’opera che Bismarck aveva iniziato, il suo è nient’altro che un tipico esempio di falsificazione della Storia». La concezione razziale della nazione, sottintesa dall’Anschluss e dalla successiva annessione dei Sudeti, «è totalmente estranea al cancelliere di ferro». Le annessioni bismarckiane, tutte «ascrivibili in un quadro territoriale chiaramente tracciato», prosegue Bled, non hanno niente in comune con «la sete di conquista che porta Hitler fino alle pianure della Russia». Va poi ricordato che «laddove Bismarck definisce dopo il 1871 la Germania come una “nazione satura” e adatta la sua politica a tale constatazione, Hitler non pone limiti alla sua volontà di potenza». Allo stesso modo va stabilito che «si cercherebbe invano una pur minima influenza di Bismarck sull’impresa genocida, cuore del sistema nazista»: anche se «è esagerato definire il grande cancelliere un filosemita, egli vanta diversi amici ebrei nel suo entourage e, soprattutto, in nessun momento l’antisemitismo ha ispirato la sua politica».
Quel grande cancelliere era dunque altra cosa da come troppo a lungo è stato rappresentato in questo dopoguerra.
Otto Eduard Leopold von Bismarck era nato il 1° aprile 1815 (due mesi e mezzo prima che Napoleone fosse sconfitto a Waterloo) a Schoenhausen, nell’antica Marca di Brandeburgo, sulla riva destra dell’Elba. Suo padre, Ferdinand, apparteneva a una famiglia abbastanza ricca di Junker, i proprietari terrieri, ma con un albero genealogico dal quale erano del tutto assenti capi militari, grandi professori universitari, ministri o funzionari di rango; lui stesso, nel 1795, aveva abbandonato l’esercito e si era ritirato nei suoi possedimenti per condurre una vita da gentiluomo di campagna. La madre di Otto, Wilhelmine Mencken, vantava invece antenati illustri (suo padre era stato capo di gabinetto di Federico Guglielmo III), era molto ambiziosa e non sopportava di vivere tra boschi e campagne. Fu dunque lei che nel 1822 impose alla famiglia di trasferirsi a Berlino e fu sempre lei che decise di mandare il figlio, che aveva allora sette anni, nel severissimo istituto Plamann, dove il piccolo avrebbe avuto occasione di conoscere il Drill, la disciplina militare prussiana.
Otto reagisce idealizzando il padre e odiando la madre, la città e gli studi. Man mano che cresce, per lui conta solo il principio di autorità: non va nel 1832 alla festa di Hambach, dove gli studenti sventolano la bandiera dai tre colori (nero, rosso e oro) del liberalismo tedesco, e durante le lezioni di storia manifesta repulsione per figure ribelli come quelle di Bruto e Guglielmo Tell; all’università diserta le lezioni del grande giurista Friedrich Karl von Savigny e dell’altrettanto grande storico Leopold von Ranke. Mostra interesse solo per la storia pragmatica e non ispirata dalla filosofia idealista del settantenne Arnold Heeren, che è tra i primi a mettere in risalto i legami tra economia e politica. Dopo l’università fa un iniziale apprendistato nell’amministrazione giudiziaria (ad Aquisgrana), poi ha un incarico di governo a Potsdam, quindi trascorre un anno nell’esercito, finché nel 1839, in seguito alla morte della madre, è richiamato alla gestione dei possedimenti di famiglia. Nel 1845 muore anche suo padre e lui, all’età di trent’anni, si proietta — con una scelta che crede essere definitiva — nella vita del proprietario terriero. Ma già negli ultimi anni di vita del padre aveva scoperto quanto ci si poteva annoiare in quel mondo di «cani, cavalli, signorotti di campagna», a lungo idealizzato ai tempi della scuola. Conosce bene francese e inglese, così appena può si mette in viaggio alla volta di Francia, Inghilterra, Scozia, Svizzera, poi in Egitto, India. Soffre di depressione. Beve. Lo salva un’amica, Marie von Thadden, che lo avvicina ai circoli pietisti, una corrente del protestantesimo che predica una fede staccata dal dogma, il dovere della preghiera e la lettura quotidiana della Bibbia. Nel 1847, dopo la morte di Marie, Otto sposa Johanna von Puttkammer, anche lei appartenente a una famiglia di Junker, che gli darà tre figli e sarà fondamentale per il resto della sua vita.
Matrimonio e ingresso nella vita pubblica avvengono nello stesso tempo. Il 1847 sarà anche l’anno, oltre che delle nozze, del suo ingresso in politica. Sono i circoli pietisti che lo portano all’attenzione di Ludwig e Leopold von Gerlach, capi indiscussi dei conservatori prussiani. E sono i von Gerlach che lo mandano al Parlamento, perché sostenga i diritti della corona (Federico Guglielmo IV) contro una maggioranza di deputati schierata a favore dei princìpi costituzionali. Otto assolve al compito con energia ed efficacia fino al giorno in cui Federico Guglielmo, che ha avuto il tempo di notarlo e apprezzarlo, scioglie il Parlamento. Dopodiché il sovrano lo incontra casualmente a Venezia, dove è in viaggio nuziale con Johanna, gli esprime considerazione per la condotta che ha avuto contro i liberali e lo invita a entrare nel circolo ristretto dei propri intimi. Ma già l’anno successivo Bismarck mette a repentaglio quel suo rapporto con il re, quando, nel 1848, Federico Guglielmo sembra cedere e in parte cede ai rivoluzionari: Bismarck prende le distanze dal potente «amico», è uno dei due deputati che in Parlamento si oppongono pubblicamente alle concessioni del re. Biasima persino il fatto che il sovrano si sia inchinato davanti alle spoglie delle vittime dei moti del 1848. «Il mio cuore gronda veleno al cospetto dello scempio che quegli assassini hanno fatto della mia patria», afferma. Per poi aggiungere: «La corona ha essa stessa gettato terra sulla propria bara». Si dichiara poi, il 5 dicembre, contrario alla concessione della Costituzione. Prova a convincere alcuni generali a ordire un colpo di Stato per «riportare Federico Guglielmo alla pienezza dei propri poteri», tenta di organizzare una controrivoluzione degli Junker, si avvicina al principe di Prussia, fratello del re, Guglielmo, che, per la sua irriducibile ostilità alla rivoluzione, è stato costretto ad abbandonare Berlino. Federico Guglielmo lo rimprovera per questi suoi atteggiamenti («Ho bisogno di sostegno e di devozione attiva, non di critiche», gli dice) e quando i conservatori propongono il suo nome tra i candidati a un posto di ministro, dice di no e annota a fianco del suo nome: «Da utilizzare solo quando i fucili regneranno sovrani».
Tale coerenza, però, darà immagine a Bismarck, che già a quei tempi ha in mente l’unificazione della Germania a guida prussiana, anche se non ancora nel disegno che diverrà più preciso solo dopo il 1866. E quando, nell’ottobre del 1848, l’Ungheria di Lajos Kossuth proclama la secessione dall’Austria, il giovane politico suggerisce al re di prendere esempio da Federico II, che nel 1740 aveva approfittato di un momento difficile per Maria Teresa e si era impadronito della Slesia. Ciò che lo porta a una quasi rottura con il partito dei von Gerlach, che vorrebbe regolare le relazioni con Vienna sulla base della «solidarietà degli interessi tra conservatori» tedeschi e austriaci. Rapporto, quello con i conservatori prussiani, che, in ogni caso, verrà presto recuperato. Federico Guglielmo darà poi l’ordine di occupare l’Assia-Kassel, ma sarà costretto a una umiliante capitolazione.
È in quei giorni che emerge il Bismarck statista: «La sola base di un grande Stato», proclama, «è l’egoismo, non la sensibilità». Bismarck, nota Bled, «è intervenuto nel dibattito non come singolo oratore ma come portavoce dei conservatori», una scelta rivelatrice del ruolo che ormai riveste sulla scena politica; anche il re lo guarda con occhi diversi, dimentica il feroce critico della politica condotta dal marzo 1848 per concentrarsi sulle sue doti venute alla luce nell’ultima fase della crisi. Si è fatto la fama di «paladino degli interessi dei conservatori» prussiani, anche a dispetto della loro consapevolezza, e ha avuto il coraggio di darsi le parvenze di «irriducibile reazionario». Il re lo compensa nominandolo rappresentante della Prussia alla Dieta federale di Francoforte, una delle cariche più alte della gerarchia diplomatica.
A Francoforte Bismarck ha come interlocutore l’austriaco Friedrich Thun-Hohenstein, che affronta a testa alta: se Thun fuma mentre presiede la Dieta, anche lui si accende un sigaro; se Thun lo riceve in maniche di camicia, anche lui si toglie la giacca. E lo stesso farà con il successore di Thun, il barone Prokesch von Osten. Si distingue poi sulla questione francese. Napoleone III è considerato dalla Prussia il grande rivale. Ma Bismarck pensa soltanto alla futura Germania e si mostra duttile nei confronti del sovrano francese. «Sono convinto che sarebbe una sventura per la Prussia se il suo governo dovesse allearsi con la Francia, ma, anche se dobbiamo cercare di evitarlo, non possiamo non considerare che potrebbero presentarsi delle condizioni per cui si sarà costretti a scegliere il male minore». E più tardi: «La Francia? Dato che esiste, noi non possiamo evitare di fare politica con la Francia; non possiamo tenerla fuori dalla scacchiera politica». In che senso? «Non si può giocare a scacchi se 16 delle 64 caselle sono escluse dal gioco». Ciò che lo mette, ancora una volta, in urto con Leopold von Gerlach e i conservatori, i quali continuano a perorare la causa della restaurazione dell’unione tra le potenze conservatrici, nello spirito della Santa Alleanza. E che per questo sono tutti filoaustriaci.
Bismarck è e resta un grande conservatore, dotato di un altrettanto grande pragmatismo e senso delle opportunità. Poco prima di diventare capo del governo (1862), avrà un cordiale incontro persino con il capo dei socialisti Ferdinand Lassalle. La duttilità gli consente di destreggiarsi in politica anche quando è in minoranza. E nel contempo di unificare la Germania con tre guerre vittoriose: contro la Danimarca (1864), l’Austria (1866) e la Francia (1870-71). A suo modo è un «rivoluzionario». Che però governerà portandosi ai limiti della Costituzione, essendo spesso tentato di sospenderla e alla fine — dopo le elezioni del febbraio del 1890 — di condurre una «politica sporca» (così la definisce Bled) spingendosi fino alle soglie di un colpo di Stato. Putsch che sarà evitato solo dalle sue forzate dimissioni.
È un uomo spietato, Bismarck. Nel 1863, quando un’insurrezione nella parte russa della Polonia investe la Prussia, dice apertamente: «Colpiremo i polacchi fino alla morte! La loro situazione mi impietosisce, ma se vogliamo sopravvivere non abbiamo altra scelta che sterminarli». Per poi così giustificare l’uso di quel verbo: «Il lupo non è responsabile di essere stato creato da Dio come è, eppure è bene ammazzarlo quando è possibile». È vero, commenta Jean-Paul Bled, «che tale dichiarazione non deve essere presa alla lettera, ma, anche con questa premessa, essa testimonia una durezza poco comune». Durezza che spinse Bismarck a pronunciare le sue parole più celebri: «Le grandi questioni dei nostri tempi non si risolvono né con i discorsi né con i voti della maggioranza, ma con il ferro e con il sangue». E che gli inimica gli intellettuali: «Quando sento uno Junker tanto mediocre come questo Bismarck pavoneggiarsi con il “ferro” e con il “sangue” con cui conta di sottomettere la Germania», afferma lo storico Heinrich von Treitschke, «mi sembra che il ridicolo superi la detestabilità di tale proposito». Un altro studioso del passato, Heinrich von Sybel, accusa Bismarck di essere «senza fede né legge». Altrettanto severo un terzo storico, Johann Gustav Droysen. L’organo dei liberali renani, la «Koelnische Zeitung», suggerisce al sovrano di «affidare la direzione dello Stato a un ministro meno geniale» (va ricordato che quando Bismarck sale al potere, nel 1862, il giornale dei conservatori, la «Kreuzzeitung», vanta appena 200 mila lettori, mentre i fogli liberali, che lo avversano, di lettori ne hanno un milione e 250 mila). Bismarck perde le elezioni del 1863, ma insiste nella sua politica. E, dopo i primi successi militari, sono gli intellettuali a ricredersi sul suo conto. Adesso Treitschke confida a un amico: «La politica di Bismarck mi colpisce, non solo è ragionevole ma ha una levatura morale, essa mira a ciò di cui abbiamo bisogno, ci avvicina al grande obiettivo dell’unità tedesca». E, all’apice del successo di Bismarck, un altro ex critico, von Sybel, si domanderà pubblicamente: «Come abbiamo potuto meritare la grazia divina di assistere a così grandi avvenimenti?». Solo il giovane Friedrich Nietzsche continuerà a manifestare dubbi sulle politiche del grande cancelliere.
Quando le vittorie militari si riverberano nel voto politico, portando i conservatori al grande balzo nelle elezioni del 1866 (da 35 a 142 seggi), Bismarck a sorpresa apre ai liberali sconfitti (ai quali tornerà ad avvicinarsi più volte negli anni successivi). Anche Droysen rivede il suo giudizio: «Bisogna convenirne, il conte Bismarck possiede il raro dono dello statista, che sarebbe ingiusto valutare a partire da sedicenti princìpi, opinioni precostituite e rigide o conclusioni tratte da antichi pregiudizi; ciò che importa è andare avanti, non solo intravedere delle nuove prospettive ma realizzarle. Arso da una fiamma fredda, appassionatamente moderata; indifferente agli amici come ai nemici, ai partiti come ai princìpi, interamente radicato nei fatti, nella realtà dello Stato, questo uomo è in grado di agire». E perciò merita ammirazione.
Né Treitschke tornerà a ripetere le osservazioni critiche ricordate poc’anzi, quando nel 1870, dopo la vittoria del generale von Moltke sui francesi a Sedan, Bismarck dirà che tutti i franchi tiratori dovevano essere giustiziati all’istante; che i soldati africani andavano trattati come «bestie da preda» ed erano da «abbattere» senza alcun processo e che i militari prussiani che li avessero fatti prigionieri andavano arrestati: quando poi, ad Ablis, i francesi catturarono sessanta soldati tedeschi, Bismarck diede ordine di impiccare tutti gli abitanti maschi della città. L’ordine fu eseguito e né Treitschke né i suoi colleghi ipercritici fino a pochi anni prima trovarono nulla da ridire. Anzi Treitschke mise la sua scienza storica a disposizione per dare un contributo a piegare l’Alsazia, refrattaria a essere annessa alla futura Germania: «Noi tedeschi, poiché conosciamo bene sia la Francia che la Germania, sappiamo ciò che è meglio o peggio per gli alsaziani, e anche contro la loro volontà intendiamo riportarli verso la loro vera identità», scrisse; «lo spirito di un popolo non abbraccia solo la popolazione presente, ma anche le generazioni passate, quindi noi invochiamo la volontà dei morti contro la volontà dei vivi».
Alle elezioni del 1871, dopo le strepitose vittorie e la fondazione del Reich, i liberali conquisteranno la maggioranza del Parlamento. E in quelle stesse elezioni, al suo debutto, otterrà un buon risultato (24,7 per cento) il Centro cattolico guidato da Ludwig Windthorst, destinato a crescere ancora nel 1877 e nel 1878. Ma, grazie all’accorta navigazione di Bismarck, i conservatori nel 1879 riprenderanno la maggioranza e non la perderanno più fino al 1918.
Con l’età, però, l’inclinazione bismarckiana al dispotismo, scrive Bled, «si accentua fino a diventare un’ossessione, poiché il cancelliere non tollera più dai ministri né che lo si contraddica, né che si prendano iniziative individuali». Lo stesso Bled è costretto ad ammettere che in tarda età «il desiderio di conservare il potere induce Bismarck a commettere bassezze e meschinità». Ma a quel punto, a seguito della morte nel 1888 del sovrano Guglielmo I (il quale, nei 26 anni di convivenza, era solito ripetere: «È difficile essere imperatore sotto Bismarck»), viene allontanato dal comando. Lo stesso sistema che lui ha fondato e munito di anticorpi, proprio in virtù di quegli anticorpi, è in grado, nel 1890, di estrometterlo dal potere. Anche se il suo grande prestigio continuerà a rimanere tale pur dopo l’estromissione e persino a crescere dopo la sua morte (1898).
Certo, Bismarck ebbe dalla sua un sovrano che gli coprì le spalle e militari capaci di vincere le guerre. Ma adesso gli storici riconoscono che è a lui, al suo impasto tra coerenza ai valori originari del ceppo di appartenenza, duttilità politica e capacità di sfidare il senso comune degli intellettuali e dei media del suo tempo, che si deve la fondazione di una destra tedesca in grado di durare. E di evolversi nel secondo dopoguerra, a dispetto dell’ingombrante passato hitleriano, in un moderno partito di governo. Certo, la sua lunga vita politica fu favorita, come si è detto, da Guglielmo e dalle fortune militari, mentre le nuove esperienze nella seconda metà del Novecento si sono giovate del fecondo incontro tra destra e cultura cattolica. Ma non si possono disconoscere in questa costruzione i meriti riconducibili alla sua persona. Ciò che induce ancora una volta a riflettere sul danno arrecato alla storia d’Italia dalla prematura scomparsa dell’uomo che Bismarck aveva considerato un modello e che forse avrebbe saputo strutturare la politica italiana in modi non troppo dissimili da quelli tedeschi: Camillo Benso conte di Cavour.