Lo studioso toscano aveva 84 anni. Insegnò in America. Approfondì l’Italia tra la fine dell’era liberale e l’inizio del fascismo
Sergio Romano Corriere della Sera 14 luglio
Ciò che posso scrivere oggi di Roberto Vivarelli, scomparso ieri a Roma all’età di 84 anni, non può rendere il dovuto omaggio all’opera di uno storico che si è lungamente dedicato alla ricostruzione di una delle fasi più cruciali della storia italiana tra la fine dell’era liberale e l’inizio del fascismo. Posso soltanto ricordare alcuni passaggi della sua vita e alcuni aspetti del suo carattere. Quando le edizioni del Mulino, nel 2000, pubblicarono un breve libro autobiografico intitolato La fine di una stagione. Memorie 1943-1945, molti appresero che l’autore, amico e allievo di Gaetano Salvemini, si era arruolato all’età di 14 anni nelle Brigate Nere. Molti lessero con stupore chiedendosi perché una personalità liberale della vita accademica avesse un giovanile passato fascista. Qualcuno sostenne che il libro era inopportuno, forse addirittura nostalgico. Non furono molti, temo, quelli che ne capirono i motivi.
Vivarelli aveva perduto il padre in Jugoslavia, ucciso dai partigiani di Tito, e credette, come la madre e il fratello maggiore, che il solo modo di rendere omaggio al padre e al marito fosse quello di aderire alla Repubblica sociale italiana. Un gesto giovanile? Uno scatto emotivo? Vivarelli non voleva né giustificarsi né utilizzare il proprio caso per dimostrare la complessità e le contraddizioni della storia italiana. La sua confessione non fu né una provocazione né una forma di narcisismo (come fu forse quella di Günther Grass quando rivelò il suo arruolamento nelle SS alla fine della Seconda guerra mondiale).
Credo piuttosto che all’età di settant’anni non volesse andarsene da questa terra lasciando nella sua vita una cosa non detta. Il giudizio degli altri lo interessava fino a un certo punto. Quello che maggiormente contava per lui era la franchezza. Il carattere ebbe la sua parte. Era orgoglioso, impaziente e pronto a raccogliere la sfida ogniqualvolta s’imbatteva nei luoghi comuni, nella correttezza politica, nelle ricerche storiche dettate dalle mode accademiche. Alcune delle sue pagine più brillanti sono quelle in cui castigava i libri sull’Italia scritti da storici stranieri che gli sembravano superficiali e pieni di vecchi pregiudizi. Amava l’America e le sue università, dove aveva frequentemente insegnato, ma rimase toscano e italiano.
Conosceva i difetti del suo Paese, sapeva che l’Unità era un processo incompiuto e che i suoi connazionali non erano ancora diventati cittadini. Ma di fronte a certe critiche reagiva come Benedetto Croce quando un visitatore inglese cominciò a criticare Napoli. Il filosofo lo interruppe e gli disse (cito a memoria): «Per parlare male di Napoli basto io». Spentosi il clamore provocato dalla pubblicazione delle Memorie, Vivarelli tornò a fare il suo lavoro di storico completando l’opera in tre volumi sulle origini del fascismo e scrivendo, tra altre cose, un piccolo libro, spesso amaro, sul centocinquantesimo anniversario dell’Unità. Spero che la Scuola Normale Superiore, di cui fu professore emerito, dedichi un convegno ai grandi temi storici della sua vita. Proseguire i suoi studi è il modo migliore per rendergli onore.