Dino Messina sfata le fake news e rivendica l’anima meridionale del Risorgimento
Giancristiano Desiderio Corriere della Sera 4 marzo 2021d
Una volta nelle scuole italiane c’era la sana abitudine di adottare dei testi di letteratura che gli studenti leggevano con gli insegnanti. Un esempio classico: il celebre Breviario di estetica di Benedetto Croce, che nacque come un ciclo di lezioni per un’università del Texas, venne inserito dalla Laterza in una collana scolastica e adottato dai licei. Purtroppo, oggi questo costume non c’è più, ma andrebbe ripreso. Tra i libri che si potrebbero adottare c’è senz’altro l’ultimo di Dino Messina: Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare (Solferino). Il pregio del testo, infatti, non è solo quello di tener fede al titolo, ma anche quello di offrire alle giovani generazioni un racconto ragionato e documentato della storia patria capace di riappacificare gli italiani con quel loro benedetto passato che sembra destinato a non passare mai.
Dino Messina non ha bisogno di essere presentato ai lettori del «Corriere della Sera», sia perché è una firma del quotidiano. sia perché è autore di apprezzati saggi storici, tra i quali è giusto ricordare, per un’affinità elettiva con quest’ultimo, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta nella storia italiana (Solferino, 2019).
Se Messina ha lavorato intorno alle storie su come nacque l’Italia, insomma, sul Risorgimento e, per converso, su quel filone pubblicistico più che storiografico del sentimento antirisorgimentale denominato «movimento neoborbonico», è perché è un lucano di Viggiano in Alta Val d’Agri, Basilicata, e sa bene che le stesse idee risorgimentali hanno un’origine meridionale. Tuttavia, Messina è tanto lontano dalla costruzione di un nuovo mito del Risorgimento quanto critico con il revisionismo senza documenti e al limite della manipolazione.
Il libro inizia con il «nonno Raspail», che nella campagna lucana mostrava al nipotino un masso spaccato nella cui fenditura si nascondeva il brigante di Viggiano compagno del crudele Angelantonio Masini, che con Ninco Nanco e Carmine Crocco fu uno dei protagonisti del brigantaggio postunitario: «Banditi entrati nella grande storia degli anni Sessanta dell’Ottocento, come raccontavano le biografie esibite nella libreria del soggiorno di casa». Ma al racconto di «nonno Raspail» rispondeva il «padre Dionisio», che al figlio Dino ricordava con orgoglio la storia del comitato insurrezionale di Corleto Perticara, che il 16 agosto 1860 con i suoi patrioti, professionisti e artigiani, insorse due giorni prima dell’arrivo di Garibaldi.
A quale delle due versioni credere? È vero che per oltre tre anni le bande di Crocco diedero filo da torcere all’esercito italiano, ma è altrettanto vero che nella battaglia campale del Volturno c’erano ben tremila lucani a combattere al fianco di Garibaldi contro le truppe borboniche del generale Giosuè Ritucci. E, allora, ecco che il libro «nasce da una motivazione personale», ma anche «dall’esigenza di un giornalista che si è occupato a lungo di storia di fare chiarezza sul dibattito pubblico che dagli anni Novanta del Novecento ruota attorno al periodo dell’unificazione nazionale». Il risultato è un testo esemplare di inchiesta storiografica, che sulla scorta di studi seri, incontri, documenti e visite dei luoghi ci dà una lettura critica del Risorgimento e dei miti e delle leggende costruite ad arte per dividere l’Italia unita dai «piemontesi» e pensata dai «napoletani».
Sulla base degli studi di Alessandro Barbero, Juri Bossuto e Luca Costanzo, viene totalmente sconfessata la leggenda nera di Fenestrelle che i neoborbonici, ma anche giornalisti come Pino Aprile e Lorenzo Del Boca, definiscono né più né meno che un «lager» o un «campo di concentramento» in cui persero la vita decine di migliaia di soldati dell’ex esercito borbonico, mentre i documenti precisi ed esibiti dagli storici citati riportano il numero delle vittime a «40 in cinque anni» dimostrando che «queste cifre, più che un genocidio etnico, spesso nascondono diverse vittime dovute a delitti di camorra, che da tempo si era infiltrata nell’esercito borbonico».
Quanto poi all’altra «leggenda nera», del paese sannita Pontelandolfo, incendiato insieme con il vicino comune di Casalduni dai soldati del generale Cialdini il 14 agosto 1861 come «rappresaglia» per la strage dei 41 militari uccisi dai briganti e dalla popolazione, si dimostra con i documenti, senza i quali non si può scrivere la storia, che i morti non furono 400 o 1.400, come sostenuto con «fantasia» da Pino Aprile, ma 13 e tra questi ci furono uccisioni per vendette private tra gli stessi pontelandolfesi.
Tuttavia, l’importanza del libro di Messina non risiede nelle cifre. È altrove. Da un lato nel ricondurre il fenomeno neoborbonico alla sua doppia dimensione della politica e del mondo «virtuale» del web e dei social, e dall’altro nel mostrare che nel Mezzogiorno l’idea e l’esigenza dell’Italia unita erano molto più diffuse di quanto attualmente non s’immagini.
La versione del «padre Dionisio» alla fine ha avuto alla meglio su quella di «nonno Raspail».
Ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860