
Accademia Militare di Modena
Pólemos, diceva Eraclito, è all’origine di ogni cosa, e lo storico militare Marco Mondini ha scelto di ripercorrere quasi un secolo di vita italiana (dalle battaglie di Lissa e Custoza all’adesione alla Nato) proprio alla luce delle guerre – vinte e perse – vissute dai nostri progenitori: quando «la maggioranza dei maschi adulti accettava di pagare la tassa del sangue come parte essenziale del patto di cittadinanza».
Leggere Mondini – autore nel 2014, sempre per il Mulino, della più originale e innovativa storia della Grande Guerra combattuta in Italia – è un vero piacere. Notevole la sua capacità di coniugare grandi affreschi e squarci minuti della quotidianità bellica. Sapiente il suo utilizzo di un ampio ventaglio di fonti, da quelle d’archivio ai reperti letterari (impiegati però con giusta parsimonia, rispetto a certi colleghi ridondanti). Cristallina la sua penna, rara avis in un ambiente polveroso e asfittico come quello accademico nostrano.
E tuttavia… qualche perplessità desta il tono generale del suo ultimo lavoro; da cui pare emergere uno struggente rimpianto per un’età in cui la dottrina militare riempiva ogni ganglio della società e il clangore delle armi non era temuto, bensì incoraggiato. Mondini, sia chiaro, ha senz’altro ragione quando giudica anacronistico studiare il passato alla luce dell’odierno pensiero irenico, giacché le guerre hanno sempre rispecchiato valori radicati nello spirito del tempo. Qui, però, l’autore cade nell’errore opposto: elevare la guerra a unica dimensione della Storia.
Il rischio, così facendo, è quello di abbracciare un bellicismo oracolare, che sembra prescindere dalla legittimità o meno di un conflitto armato. Basti pensare alle pagine sulla «militarizzazione dell’educazione nazionale» avviata dal regime fascista o sul «martirio» dei «ragazzi della Folgore» a El Alamein. Come se il sangue, la morte, il sacrificio, il cameratismo, l’onore, eccetera, fossero valori in sé, indipendentemente da chi li incarna. Ma se assumessimo come unico canone quello dell’esercito quale «scuola della nazione», Putin sarebbe un patriota alla stregua di Zelensky. Il che suona bizzarro per un volume adottato in questi mesi come livre de chevet dai sostenitori della resistenza ucraina
Secondo Mondini, la cui Weltanschauung non pare contemplare il senso del tragico, la «disgregazione della tradizionale cultura militare» rappresenta una catastrofe storica. Secondo altri, invece, si è trattato di un passo in avanti sia nel processo di civilizzazione sia in quello di emancipazione dell’individuo. La pensava così anche un intellettuale come Enzo Forcella, il quale già nel 1971 constatava con sollievo quanto gli uomini fossero «sempre meno disposti ad affidare a una autorità esterna il diritto di decidere della loro vita e della loro morte e, quindi, a condividere i valori in nome dei quali gli si chiede di uccidere e di morire».
Raffaele Liucci Sole 24 Ore 6 aprile 2025
