Violenza e crudeltà, allegria e orrore: l’assedio del 1854 in Crimea diventa il simbolo degli eccidi senza ragione
Così Tolstoj inaugurò il reportage moderno sul carattere inumano dei conflitti
Pietro Citati 28 agosto – Corriere della Sera
Lev Nikolaevic Tolstoj scrisse Sebastopoli nel 1855-56, a 27 e 28 anni. Mosca e San Pietroburgo furono incantate da quella prosa bellissima, che non aveva precedenti nella letteratura russa. Anche noi, oggi, siamo incantati. Il libro ha inizio con l’aurora che comincia appena a tingere la volta del cielo, la superficie del mare si spoglia del fosco della notte, il primo raggio di sole svaria di un lieto brillio, dalla baia viene freddo e nebbia, l’aspro gelo mattutino morde la faccia… Cosa potrebbe esserci di più semplice e quasi di elementare? Eppure abbiamo l’impressione di non aver mai sentito, odorato, veduto un’alba nella nostra vita. Le sensazioni sono di ogni specie: ma tutte passano attraverso la sensazione tolstojana suprema ? La vista. Udiamo i colpi della batteria di Sebastopoli. La guerra, dopo la natura. Ma la natura è indifferente. Centinaia di cadaveri giacciono nelle bassure: centinaia di uomini, con imprecazioni e preghiere sulle labbra riarse, si trascinano carponi e mandano gemiti; e intanto, senza nessuna differenza dai giorni precedenti, comincia a trasparire l’alba su Monte Sapùn, le stelle scintillanti impallidiscono, si diffonde la nebbia, a levante si accende vermiglia l’aurora, «e ancora una volta, senza nessuna differenza dai giorni precedenti, promettendo gioia, amore e felicità a tutto il mondo in risveglio, sorge il possente, stupendo globo del sole». Questo sole possente e indifferente è un’immagine dell’arte di Tolstoj, la quale nel medesimo tempo partecipa, condivide e si commuove alle infinite sofferenze di decine di migliaia di uomini di ogni provenienza.
I tre racconti di Sebastopoli inaugurano la moderna letteratura di guerra: non possiamo immaginare nemmeno Guerra e pace senza Sebastopoli nel maggio 1855; né Stephen Crane né Ernest Hemingway, né chiunque altro. In apparenza, non c’è architettura narrativa, ma una moltitudine di personaggi, che occupano poche righe, e tornano a distanza di qualche pagina; un formicolio di frammenti scuri e luminosi e questa frantumazione dà l’impressione di un libro vastissimo e inesauribile. Ci sono tutti i toni: il sublime, il drammatico, lo spavaldo, il vanitoso, il comico, lo snob, il farsesco, il crudele, l’oscuro, il terribile, l’ingenuo, l’innocente. Qualsiasi evento, perfino il più atroce, può diventare uno spettacolo di rara bellezza: uno spettacolo che deve venire ammirato. Così il funerale di un ufficiale con festoso accompagnamento musicale; o la sfavillante spoletta d’una bomba che disegna un arco di fuoco nel buio stellato del cielo: o un crepitio di fucili: migliaia di piccoli barlumi, in uno spruzzìo incessante, che luccicano lungo tutta la linea; o i soldati francesi, che corrono in terreno scoperto verso le trincee russe, con un radioso scintillio di baionette. Molto spesso Tolstoj si rifiuta di precisare gli eventi: il racconto è indeterminato, perché il narratore guarda con un occhio lontano, o lontanissimo, o curiosamente distratto. Il comandante del battaglione dice qualcosa: l’allievo ufficiale Pest si punge in qualcosa d’aguzzo, poi incespica e cade su qualcosa; qualcuno caccia la baionetta su qualcosa di morbido; e infine le colonne francesi all’assalto sembrano prima macchie scure, poi strisce scure. Ma è vero anche il contrario. Il racconto può divenire precisissimo, determinatissimo, vicinissimo. In pagine celeberrime, riprese e rielaborate in Guerra e pace, Tolstoj racconta un solo evento: come «il capitano Praskùchin sia stato ucciso sul colpo da una scheggia in mezzo al petto». Tutto è udito, sentito, ricordato, visto con gli occhi di Praskùchin moribondo. Tolstoj scompare dalla scena; e, intanto questo momento viene rallentato in fitte pagine, come se fossimo entrati in una dimensione opposta del tempo. La verità è raggiunta alle spalle, passando da ciò che è strano e senza scopo, senza connessione, o senza ordine di sorta, o senza alcuna ragionevolezza. Prendete i suoni delle pallottole: sono «ronzanti come api, sibilanti e rapide, o lamentose come una corda tesa»: mentre il sibilo di una bomba da mortaio è «regolare, piuttosto piacevole, tale insomma da non conciliarsi affatto con l’idea di una cosa terribile». Quanto alla tragedia della morte, spesso non impressiona: non addolora, ma è guardata «con una curiosità avida e bonaria».La cosa più straordinaria è che il vero può essere non solo strano, ma falso. Un soldato è stato ferito gravemente, certo soffre; ma Tolstoj scrive che sul suo viso affiora «una simulata, anticipata espressione di dolore». I soldati mentono, recitano, millantano: lo fanno senza saperlo, perché per tutta la durata del combattimento si trovano in una specie di nebbia o di mezza coscienza, al punto che tutto quanto era accaduto, sembra accaduto chissà dove, chissà quando, e chissà a chi. Questa è la strada attraverso la quale Tolstoj raggiunge la verità, per la quale nutre una passione furibonda, come forse nessuno scrittore del diciannovesimo secolo.
Il terzo racconto, Sebastopoli nell’agosto del 1855, è il più tremendo. Le pallottole e le bombe di mortaio non scintillano più; i comandanti di stato maggiore smettono di ostentare la propria vanità aristocratica; e il tempo è più lento e profondo, come se non potesse venire consumato. L’eroe del racconto è Volòdja, un giovanissimo sottotenente: ha due allegri e luminosi occhi neri, spesso coperti da un leggero umidore; un incarnato che gli accende le gote; una specie di trecciolina bionda gli scende sulla bianca, tenera nuca; le labbra vermiglie gli si schiudono frequentemente in un timido sorriso; i gesti sono pieni di ingenua gioia; una camicia rossa sporge dal mantello sbottonato. Quando si sente solo davanti al pericolo e alla morte, desidera piangere; e invoca Dio che gli presti fermezza e lo liberi dalla vergogna e dal disonore. Alla fine la sua anima acquista coraggio e luce: la sua grazia attira sia gli ufficiali più adulti sia i giovanissimi allievi ufficiali; e quando giunge baldanzosamente alla batteria, grida con la vocetta squillante: «Primo pezzo! Secondo pezzo!», e allegro si slancia verso il parapetto per osservare dove cadono le bombe dei suoi cannoni.Volòdja venne ucciso. Come scrive mirabilmente Tolstoj, «c’era qualcosa, in un mantello, che carponi giaceva in quel luogo, dove stava Volòdja». È il segno della sconfitta dell’esercito russo. «Su tutta la linea dei bastioni di Sebastopoli, che per tanti mesi avevano ribollito di una eccezionale energia di vita… sui bastioni di Sebastopoli non c’era più, in nessun punto, anima viva. Tutto era morto, deserto, orrendo, ma non cheto; tutto, ancora, continuava ad andare in rovina. Dovunque stavano abbandonati affusti contorti, sotto i quali i corpi umani erano rimasti schiacciati; pesanti cannoni di ferro ammutoliti per sempre, che da una forza tremenda erano stati ribaltati giù in fondo alle buche e a metà ricoperti di terra; bombe, proiettili di cannone, di nuovo cadaveri, buche, frantumi di travi e di posti blindati; e, ancora una volta, taciturni cadaveri in mantelli grigi e turchini. Tutto questo, a brevi intervalli, sussultava ancora e s’illuminava al sanguigno bagliore delle esplosioni, che continuavano a squassare l’aria…».«L’esercito di Sebastopoli, come il mare in una cupa nottata di tempesta, confluendo insieme, spandendo qua e là e dibattendosi irrequieto con tutta la sua massa, ondeggiando lungo la baia, lentamente s’allontanava nell’oscurità impenetrabile, da quel luogo tutto bagnato del suo sangue, da quel luogo che per undici mesi aveva difeso contro un nemico due volte superiore, e che ora aveva ricevuto l’ordine di abbandonare senz’altra lotta».