Novant’anni fa il Papa riacquistava un territorio grazie ai Patti Lateranensi. Già a Fiume
il poeta aveva pensato di adottare la formula poi realizzata da Mussolini nel 1929
Francesco Margiotta Broglio Corriere della Sera 6 giugno 2019
Pochi ricordano che il primo «Stato» a prendere in considerazione, cento anni fa, la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale — che verrà riconosciuta dal Trattato del Laterano entrato in vigore il 7 giugno 1929 — fu la Repubblica (poi Reggenza) del Carnaro fondata e guidata, a Fiume, da Gabriele d’Annunzio.
Infatti tra il marzo e l’aprile 1920, il Vate progettò una «Lega di Fiume» da contrapporre a quella «delle Nazioni» di Ginevra, che doveva riunire popoli oppressi, e rappresentanze degli Stati «lesi ingiustamente dalla conferenza di Versailles». Tra questi, con Russia, Germania, Ungheria, Bulgaria e Turchia, anche la Santa Sede di Benedetto XV. Santa Sede che era stata esclusa, su richiesta italiana, da qualsiasi possibile coinvolgimento, anche indiretto, nelle trattative post-belliche. Evidentemente non insensibile alla prospettiva, il Papa riconobbe in un certo senso la Reggenza, nominando, il 30 aprile del 1920, «amministratore apostolico» per Fiume il veneto monsignor Celso Costantini, che conosceva bene d’Annunzio.
Il 10 giugno 1919, il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando aveva ricevuto all’Hotel Ritz di Parigi, dove si svolgeva la conferenza di pace, monsignor Bonaventura Cerretti «inviato speciale» del segretario di Stato vaticano Pietro Gasparri, latore di un progetto pontificio di soluzione della «questione romana» basato su un accordo che avrebbe creato un piccolo «Stato Vaticano» e regolato i rapporti tra Chiesa e Stato. La prospettiva venne, però, bloccata dalla dura opposizione di Vittorio Emanuele III, pronto ad abdicare piuttosto che «sobbarcarsi a un Concordato». Un aspetto quasi comico delle trattative di Parigi è la «cifra» adottata da Gasparri e Cerretti per corrispondere, via telegrafo, segretamente. Il marchese Brambilla, esperto della delegazione italiana e tramite con Orlando, diventò «mons. Vicario», il presidente del Consiglio «Maestro generale» e la trattativa per l’ accordo concordatario «abboccamento dispensa voto solenne».
Dal canto suo Pio XI respingerà il tentativo del governo italiano nel 1925 di riformare unilateralmente, pur migliorandola, la legislazione ecclesiastica, ribadendo che la Santa Sede non poteva accettare la «iniqua condizione» fatta dall’Italia al Sommo Pontefice dopo l’occupazione di Roma, senza rendersi conto che in uno Stato totalitario, come quello fascista, la Chiesa avrebbe avuto ancor meno libertà di quella concepita dai governi liberali.
Ci vorrà Mussolini per convincere il sovrano, nel 1928, ad accettare i «Patti» tra Italia e papato a lungo negoziati, a partire dal 1926, tra il consigliere di Stato Domenico Barone e l’avvocato Francesco Pacelli, fratello del futuro Papa Pio XII, ai quali si unì, nel 1927, monsignor Borgongini Duca, che sarà, nel 1929 il primo nunzio apostolico presso il Regno d’Italia. Nel presentare il 21 agosto del 1928 i tre testi (Trattato, Concordato, Convenzione finanziaria) Barone sottolineava la «nobile arrendevolezza» di Pio XI sulla questione territoriale (con la rinuncia a un collegamento extra-territoriale con il mare) e l’apprezzamento del Pontefice per il «nuovo spirito che in materia religiosa domina ormai l’Italia» grazie alle «sagge e lungimiranti e veramente consapevoli direttive del Duce». Solo il 22 novembre 1928 il re autorizzò il Duce a «iniziare» le trattative ufficiali con il Vaticano, che saranno concluse l’11 febbraio 1929 nei Palazzi lateranensi in Roma.
Il 7 giugno del 1929, come già indicato, i «Patti» entreranno in vigore e nascerà, quindi, il nuovo «Stato della Città del Vaticano», che d’Annunzio avrebbe voluto parte della Lega internazionale avversaria della Società delle Nazioni di Ginevra. Peraltro quando la Santa Sede cercò di «registrare» i «Patti» presso questa Società, Mussolini si oppose e riuscì a bloccare ogni prospettiva in tale direzione. Bisognerà aspettare l’inizio di questo secolo per vedere la Sede del Papa riconosciuta, ma solo come «Stato osservatore», dalle Nazioni Unite di New York.
Novant’anni fa Pio XI promulgava la legge fondamentale del suo Stato e domani, 7 giugno, entrerà in vigore la riforma del governo vaticano varata da Papa Francesco con motu proprio del 6 dicembre 2018, allo scopo di rendere il piccolo territorio indipendente (440 ettari) «sempre più idoneo alle esigenze attuali». Va comunque segnalato che la «legge fondamentale» dello Stato-supporto della sovranità del papa venne redatta da un famoso giurista, Federico Cammeo, di religione ebraica, che nel 1938 sarà estromesso dalla Facoltà giuridica di Firenze, della quale era preside, colpito dalle leggi razziali.
In 27 articoli il Trattato dell’11 febbraio 1929 confermava il principio della religione cattolica come religione dello Stato, garantiva la sovranità della Santa Sede nel «campo internazionale», riconosceva la piena proprietà e la giurisdizione esclusiva sulla Città del Vaticano, assicurava la «non ingerenza» italiana nella medesima e i collegamenti di acqua, elettricità, linee ferroviarie, telefoni, telegrafi, poste e radiotrasmissioni a spese dello Stato, definiva «sacra e inviolabile» la persona del Pontefice, riconosceva il diritto di legazione attiva e passiva, il libero accesso dei diplomatici inviati dalla Santa Sede e da potenze estere e di tutti i vescovi del mondo, ristabiliva le relazioni diplomatiche, garantiva il riconoscimento della giurisdizione della Chiesa su «persone ecclesiastiche o religiose» nelle materie spirituali e disciplinari e la neutralità e inviolabilità del territorio e, con specifica convenzione, provvedeva a liquidare i crediti della Santa Sede verso l’Italia (750 milioni di lire più un miliardo di «consolidato» al 5%).
Dopo la «pace» del Laterano i rapporti tra papato e Italia fascista si svilupparono, in genere, senza contrasti profondi, almeno fino al silenzio «complice» delle autorità ecclesiastiche dopo il 25 luglio 1943 e allo scarso entusiasmo per la repubblica di Salò. Si possono ricordare le «crisi» per l’Azione cattolica (di cui il Duce paventava sempre le attività « politiche»), quella per le nomine dei vescovi nelle colonie, quella per i matrimoni tra ebrei e cristiani dopo le leggi razziali, e quella, poco conosciuta, sul «titolo» da attribuire al figlio maschio del principe ereditario Umberto di Savoia.
Nel luglio 1934, in vista della nascita del figlio (si sperava) maschio di Umberto di Savoia, principe di Piemonte, il Duce avrebbe deciso che al rampollo sabaudo dovesse andare non il titolo tradizionale di «principe di Napoli», ma quello, di assonanza napoleonica, di «principe di Roma». Non si conoscono le reazioni della casa reale, ma i servizi riferiscono della energica opposizione della Santa Sede. Tenendo conto anche del «carattere sacro» della capitale sancito dal Trattato del 1929, i «messi speciali» di Pio XI avrebbero fatto presente che, in base a quel principio, l’unico «principe di Roma» non poteva che essere e restare il Sommo Pontefice. Fu facile cedere per Mussolini: infatti il 24 settembre nascerà una principessa, Maria Pia. Bisognerà aspettare il 12 febbraio del 1937 per festeggiare a Napoli, tra colpi di cannone e cortei di folla, la nascita di Vittorio Emanuele che non sarà, ovviamente, «Principe di Roma».