Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 3 gennaio
Leggendo la sua risposta sulla guerra del brigantaggio, vedo che ancora una volta, secondo la vulgata dei vincitori, si continua a insistere su un certo modo di vedere e di intendere le «cose» del brigantaggio. Perché continuare a fare uso di sostantivi e aggettivi offensivi, ingiuriosi, penalizzanti, riduttivi per un fenomeno vasto sia per la zona interessata — l’ex-Regno delle Due Sicilie — sia per durata temporale? Perché usare il termine «accozzaglia»? Come definire chi, pur ritenendo di avere di fronte una «accozzaglia» di briganti imbastì il primo etnocidio di massa? Le dice qualcosa il nome Casalduni? O Pontelandolfo? O Campolattaro? O Isernia? O Venafro? Oppure Bronte (di cui parla, anche se in modo non del tutto veritiero Giovanni Verga nel racconto «Libertà», di cui nello scorso secolo qualcosa ebbe pure a dire Leonardo Sciascia)? Come definirebbe quei grandissimi e civilissimi uomini venuti a «civilizzarci», a «liberarci», ad «ammodernarci» e… capaci di fare quelle «cose»?
Giuseppe Vozza
Caro Vozza, L’espressione «guerra del brigantaggio », con cui vengono definiti gli eventi nelle province meridionali fra il 1860 e il 1865, è certamente parziale e imprecisa. Sembra ignorare che fra gli insorti vi furono anche alcuni ufficiali del regno borbonico e parecchi volontari, soprattutto stranieri, che si batterono per il principio della legittimità dinastica. Ma il brigantaggio, in quella vicenda, ebbe una parte considerevole. Il fenomeno era largamente diffuso in alcune province del regno borbonico, fu descritto nelle cronache dei viaggiatori sin dagli inizi del XVIII secolo, dette filo da torcere ai governi di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat. Nel suo Viaggio elettorale, uno studioso e uomo politico meridionale, Francesco Da Sanctis, racconta che i benestanti di Avellino non si azzardavano a mettersi in viaggio senza avere prima reclutato un manipolo di bravi (spesso anch’essi briganti) che li avrebbe protetti durante il percorso. Uno studioso francese, Marc Monnier, autore di una indagine sulla resistenza anti-piemontese, scrisse nel 1862 che il brigantaggio era favorito dalla «configurazione di un paese coperto di montagne» e dalla negligenza di un governo «che di quelle montagne non si dava cura, né vi apriva gallerie, né vi tagliava strade; vi hanno distretti interi per i quali non è ancora passata una carrozza: vi hanno sentieri che i muli non si arrischiano di percorrere». Nel Regno dei Borbone i briganti erano diventati un potere con cui le pubbliche autorità non esitarono, in molti casi, a concludere patti di convivenza. Quando approfittarono del disfacimento dello Stato borbonico per proseguire la loro attività su più larga scala, i briganti combatterono con lo stesso stile di cui davano prova nelle loro attività criminali: stragi, saccheggi, case incendiate e teste mozzate. E quello stile finì per condizionare quello dei bersaglieri del generale Cialdini. Queste e altre notizie, caro Vozza, sono in una ristampa del libro di Monnier pubblicata a Napoli cento anni dopo, nel 1965, da Arturo Berisio Editore. Aggiungo che la guerra del brigantaggio non fu soltanto una operazione di polizia. Per il giovane Stato nato a Torino nel 1861, fu anche e soprattutto una guerra per l’esistenza. A Roma i Borbone di Napoli e la corte papale finanziavano la resistenza e cercavano di dimostrare alla opinione pubblica internazionale che il Regno dei Savoia avrebbe avuto una vita breve. Molti Stati, fra cui la Spagna e la Russia, ritardarono il riconoscimento sino al giorno in cui fu evidente che l’Italia unitaria aveva superato la sua prima crisi e conquistato il suo posto nel concerto delle nazioni europee.
Sergio Romano