La nostra Penisola presenta un insieme di caratteri che sono soltanto suoi. Questo non significa che tutto sia uguale a se stesso, tutto identico
Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 16 Settembre
Ogni volta che decide di suicidarsi la Sinistra sa che può sempre contare su chi è pronto ad aiutarla a infilare il colpo in canna: sono gli intellettuali della sua parte. I quali a propria volta sanno che qualunque cosa dicano o facciano possono sempre contare sul masochistico silenzio della loro vittima. È questa la prima riflessione che viene alla mente leggendo il lungo articolo di Tomaso Montanari «L’identità inventata degli italiani» (Il Fatto, 10 settembre).
E subito dopo non si può non pensare che su certe materie in Italia ogni discussione è impossibile dal momento che invece di sforzarsi di capire le ragioni dell’altro ognuno ripete le proprie come un mantra per il pubblico degli aficionados.
La tesi di Montanari è perfettamente espressa dal titolo dell’articolo: l’identità italiana non esiste. Lo stesso termine identità è a suo avviso un termine maledetto, servendo solo ad alimentare «il veleno della retorica identitaria» e quindi a giustificare il «noi» contro «loro», le dottrine del «respingimento», «i campi di concentramento in Libia», lo «straniero come nemico» nonché ovviamente «i paradigmi culturali (…) connessi ai fantasmi del nazionalismo nazifascista», il «prima gli italiani» e via così sermoneggiando. Tutte infamie imputabili per l’appunto al famigerato concetto di identità.
Peccato che per cercare di aver ragione l’autore ricorra a un espediente alquanto indegno del suo rango intellettuale: quello di fabbricarsi un avversario di comodo da poter facilmente stendere al tappeto. Se identità, egli scrive infatti, significa «uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta», ebbene, conclude trionfante, allora «bisogna dire con chiarezza: no, questa identità italiana non esiste». Già: il punto è che a mia conoscenza non vi è mai stato nessuno così idiota (meno che meno qualcuno con un minimo di studi alle spalle) che abbia sostenuto l’esistenza di un’identità italiana nel significato che alla parola identità attribuisce Montanari. Quando si parla d’identità italiana s’intende infatti quel significato della parola per cui ad esempio si parla di «carta d’identità»: e cioè, come attesta qualsiasi buon vocabolario (cito dallo Zingarelli): la «qualificazione di una persona, di un luogo, di una cosa per cui essa è tale e non altra». Identità italiana significa insomma che la nostra Penisola presenta un insieme di caratteri che complessivamente presi sono solo suoi e non di altri luoghi della terra. Non significa affatto che in Italia tutto è monotonamente eguale a se stesso, che tutto è identico.
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Avendo furbescamente stabilito che invece si tratta proprio di ciò il nostro autore ha facile gioco a farsi beffa di una simile castroneria. Non lo sanno forse tutti, infatti, che gli italiani sono il frutto di mille incroci di popoli diversi dalle Alpi alla Sicilia? Che la cultura italiana è sempre stata multiforme e multanime? Che non esiste neppure una cucina italiana? Tutte cose vere che però non dimostrano nulla. Certo, gli italiani — come del resto quasi tutti i popoli d’europa — sono dei sanguemisto, ma fino a prova contraria solo qui e non altrove, solo in questo spazio geografico, Normanni e Bizantini, Arabi ed Ebrei, Greci e Longobardi, Latini e Franchi, le loro lingue e le loro culture hanno avuto modo di mischiarsi e incrociarsi in una maniera così peculiare. Egualmente solo nella Penisola sono nate una miriade di prestigiosissime produzioni letterarie guarda caso scritte tutte in una sola lingua, l’italiano: anche se naturalmente con prospettive e contenuti tra loro diversissimi (come se poi la cultura di Monaco fosse mai stata la stessa di quella di Berlino o a Marsiglia si parlasse la stessa lingua di Parigi). Sta di fatto che nessuna persona sensata definirebbe mai Primo Levi o Giorgio Bassani come degli scrittori ebrei: sono stati due grandi scrittori italiani e basta. Quanto alla cucina è certo innegabile la straordinaria varietà delle cucine locali di questo Paese, ma conosce Montanari un altro luogo nel mondo dove si mangia dappertutto la pasta come da noi? dove si adoperano tanto le verdure come sui nostri fornelli?
Qui insomma non si tratta di stabilire l’esistenza di un identico bensì di un unicum.
Non si tratta di affermare una qualunque purezza — come invece tenta continuamente di insinuare Montanari per poter vestire i comodi panni del Catone antirazzista — bensì di mettere a fuoco una singolare complessità. Non si tratta di biologia, insomma, si tratta di storia. L’identità è un fatto storico, il frutto di una storia. Per questo essa è unica e irripetibile: perché tale è ogni storia. Sicché proprio da un punto di vista storico mi sembra velleitario, ad esempio, il tentativo di Montanari di contestare la centralità che nell’identità italiana hanno le sue «radici cristiane», e di farlo portando come prova decisiva null’altro che una frase contro le patrie di don Milani. Allora è solo una caso, mi chiedo, è solo un caso, che so, lo sterminato numero di chiese presenti nella Penisola? È solo un caso se fino a ieri il nome femminile più diffuso fosse Maria? È solo un accidente insignificante la presenza a Roma della Santa Sede?
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La denunciata «mancanza di un’identità unitaria» non vuol dire affatto la mancanza di un’identità (e magari anche di un’identità fortissima). Se ciò fosse vero, del resto, nessun Paese almeno in Europa ne potrebbe allora vantare una, dal momento che né Spagna né Francia né Germania, tanto per citarne qualcuno, possiedono certo un’identità molto meno variegata di quella italiana. Non solo, ma resterebbe inoltre da spiegare un non piccolo mistero storico che mi piace porre in una forma adeguatamente retorica e tale da suscitare, immagino, il sano disgusto di Montanari: che cosa dobbiamo pensare delle migliaia di donne e uomini che negli ultimi due secoli si sono fatti ammazzare sui campi di battaglia, sulle forche e dai plotoni d’esecuzione gridando «Viva l’italia»? Che cosa sono state? Vittime di un inganno, di un’illusione di «un’idea di nazione chiusa e guerresca», «di un bieco nazionalismo»? Di che cosa?
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In realtà ciò che a Montanari veramente interessa in questa discussione è adoperare la storia, il passato dell’Italia, per un fine esclusivamente e schiettamente politico: e cioè sostenere la necessità della porta aperta nei confronti degli immigrati, dal momento che come scrive «tutti siamo provvisori, migranti e stranieri», che «il nostro noi si è formato grazie ad una somma di “loro” accolti e fusi in questa terra» , e che dunque «l’Italia è sempre stata multietnica e dunque multiculturale». Affermazioni che contengono però una serie di forzature un po’ troppo disinvolte, che specialmente uno studioso dovrebbe avere qualche ritegno a permettersi. I popoli che Montanari descrive ad esempio come «accolti e fusi in questa terra» nel corso dei secoli lo furono sì, ma dopo invasioni, guerre, soprusi e miserie devastanti che spesso durarono molto a lungo: il che non mi sembra un particolare irrilevante. Parlare poi di Enea, per fare un altro esempio, come di «un rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano» significa, a parte la ridicolaggine del lessico, falsare anche la realtà di un mito che, almeno nella versione virgiliana, lungi dal consegnarci una simile immagine idilliaca ci parla invece di guerre feroci che sarebbero state scatenate proprio dall’arrivo di Enea sulle coste del Lazio. A volerlo prendere sul serio un precedente per nulla rassicurante, si dovrà ammettere.
Alla fine comunque, fatta piazza pulita di una parte della storia e manipolatane il resto, la strada è aperta perché il nostro autore possa proclamare quale unica identità italiana possibile quella di un «patriottismo costituzionale ispirato da una costituzione cosmopolitica come quella che avrebbe potuto darsi l’unione europea».
E così la Sinistra è servita: se lo desidera ha la ricetta perfetta per assaporare il bis della catastrofe elettorale del 4 marzo.