Machiavelli voleva un’Italia al passo con i grandi regni
Sergio Romano – La Lettura inserto del Corriere della Sera
Il mio incontro con Il Principe di Niccolò Machiavelli è legato a due libri. Il primo è una edizione in italiano e in inglese di grande formato, legata in pelle con fregi impressi a fuoco e lettere dorate. È stata stampata dalla Libreria del Littorio nel 1930 e contiene alcune interpretazioni del Principe, fra cui quella di Mussolini scritta per la sua rivista, «Gerarchia», nel 1924. La copertina ha sofferto, la pelle si sbriciola, l’oro delle lettere è sbiadito, ma il libro è sempre nella mia biblioteca con altre edizioni del Principe, fra cui una distribuita insieme alla rivista «Epoca» con la prefazione di Bettino Craxi e l’altra (Il Principe di Niccolò Machiavelli annotato da Napoleone) pubblicata, con una breve nota introduttiva di Silvio Berlusconi, da una casa editrice che porta il suo nome. (Incidentalmente le note di Napoleone sono un falso storico, uno dei molti apparsi in Francia dopo la morte dell’imperatore).
Il secondo libro invece si è perduto. Era un’edizione per i licei di un editore scolastico a cura di Daniele Mattalia, mio professore di storia e letteratura al Liceo Beccaria di Milano, la vecchia scuola dei Barnabiti dove aveva studiato e insegnato Carlo Cattaneo. Furono le lezioni di Mattalia che crearono i miei primi dubbi. A chi dovevo credere?
Dovevo credere a coloro che acclamavano in Machiavelli l’inventore della politica moderna, l’uomo che aveva spiegato ai suoi contemporanei perché il governo dell’anima, nella prospettiva della salvezza eterna, e quello dello Stato siano categorie diverse? Dovevo essere orgoglioso di appartenere a un Paese dove vi erano contemporaneamente il vicario di Cristo e il teorico dello Stato moderno? Oppure dovevo credere che Machiavelli avesse con grande scaltrezza smascherato il cinismo e la brutalità dei prìncipi per meglio suscitare i sentimenti repubblicani dei suoi connazionali? Quando studiammo Foscolo, Mattalia attirò la nostra attenzione su un passaggio dei Sepolcri in cui Machiavelli è descritto come «quel grande/ che temprando lo scettro à regnatori/ gli allor ne sfronda, ed alle genti svela/ di che lagrime grondi e di che sangue»? Il cinico Machiavelli era dunque un fervente patriota?
Mi facevo altre domande. Dovevo credere al Machiavelli risorgimentale, profeta dell’unità d’Italia, quello che nelle ultime righe del Principe esorta il casato dei Medici a prendere la guida del Paese per liberarlo dal puzzo del barbaro dominio? O dovevo credere a quegli inglesi, studiati da Mario Praz, per cui Machiavelli era un diavolo incarnato, suggeritore di complotti, avvelenamenti e altre malefatte? Nella sua incarnazione diabolica, prediletta dai britannici, Machiavelli appare agli inizi di un dramma di Christopher Marlowe intitolato L’ebreo di Malta, rappresentato sulle scene londinesi pochi anni prima del Giulio Cesare di Shakespeare, una tragedia in cui i temi machiavellici sono numerosi: come si conquista uno Stato, come lo si conserva, se sia meglio essere amati che temuti. Secondo Praz, il personaggio del Giulio Cesare che il pubblico inglese avrebbe certamente considerato machiavellico è quello di Cassio, regista della congiura, l’uomo che Cesare, parlando con Marco Antonio, descrive così: «Ha lo sguardo di un uomo sparuto e affamato. Sorride raramente, e quando sorride lo fa come schernisse se stesso e disprezzasse il proprio spirito per avere ceduto alla tentazione di sorridere».
Credo che la chiave di cui il lettore ha bisogno per orientarsi fra tante interpretazioni di Machiavelli sia nascosta nella sua vita. Il Principe è il risultato delle esperienze che l’autore aveva fatto negli anni fra il 1498 e il 1512 quando era stato cancelliere e segretario dei Dieci di Libertà, l’organo che nella Repubblica fiorentina era contemporaneamente ministero degli Interni, degli Esteri e della Guerra. Aveva viaggiato in Italia e in Europa, aveva frequentato le corti italiane, quella del Pontefice romano, del re di Francia e dell’imperatore Massimiliano. Aveva visto la politica nelle sue manifestazioni più crudeli e aveva constatato che mentre altrove, in Europa, questa politica stava creando lo Stato moderno, l’Italia si consumava negli intrighi, nella corruzione, nei tradimenti e nelle meschine strategie di signori che non vedevano oltre le mura delle loro città e di pontefici che non avevano altro obiettivo fuor che quello di evitare l’unione degli Stati della penisola. Comprese prima di altri che l’Italia, in queste condizioni, sarebbe stata spinta ai margini dell’Europa e sarebbe diventata, come avvenne nel 1494, la terra su cui altri avrebbero soddisfatto le loro ambizioni. Gli sembrò intollerabile che un Paese così ricco di ingegni, di storia e di bellezza si condannasse a una tale umiliante condizione. L’appello ai Medici, nell’ultimo capitolo, non è l’artifizio retorico con cui Machiavelli cercava di tornare nelle grazie del potere. È la speranza di un uomo che amava l’Italia.
Lascio al lettore decidere se fra l’epoca di Machiavelli e la nostra corra qualche analogia. Mi limito a osservare che questo Stato apparentemente unitario è un mosaico di lobby, corporazioni, patriottismi municipali, irresponsabilità regionali e sodalizi più o meno criminali: tutti decisi a difendere il loro particulare con comportamenti meno sanguinosi di quelli dell’epoca di Machiavelli, ma non meno corrotti. E osservo che in questo momento, come allora, il dilemma è fondamentalmente lo stesso: tenere il passo con i maggiori Paesi europei o precipitare nelle periferia del continente. Esiste oggi un Machiavelli lucidamente consapevole del pericolo? Esiste, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, qualcuno pronto a raccogliere la sfida? Nei momenti di minore pessimismo ho l’impressione che gli inquilini dei due palazzi non abbiano dimenticato la loro lettura del Principe.