Al Museum of Modern Art di New York si trova una tela dipinta dal futurista Umberto Boccioni nel 1910 dal titolo La città che sale, con la visione di palazzi in costruzione, ciminiere e impalcature nella periferia di Milano. Il centro del quadro è occupato da uomini e da cavalli, fusi insieme in un esasperato sforzo dinamico. In questa metafora visiva Boccioni mette in risalto alcuni tra gli elementi più tipici del futurismo, quali l’esaltazione del lavoro dell’uomo, artefice di un nuovo mondo, e il valore della crescita culturale e sociale della città moderna in ragione del progresso tecnico e industriale
Nel contesto trasgressivo delle avanguardie artistiche dell’inizio del Novecento i futuristi italiani in particolare si distinsero nel provocare l’opinione pubblica inneggiando ai miti della velocità e del dinamismo nella moderna società industriale e nel fare tabula rasa del culto della tradizione artistico-culturale e della conservazione delle tracce del passato.
Il 12 dicembre 1913 al teatro Verdi di Firenze gli esponenti del movimento futurista presentarono la loro visione politica e artistica con performance teatrali e letture poetiche. Tra gli interventi fece soprattutto clamore fra il numeroso pubblico quello del fiorentino Giovanni Papini, che lesse il suo manifesto dal titolo Contro Firenze passatista. Definì la città “una delle tombe più verminose dell’arte” e invitò i fiorentini a non trasformare la città in un grande museo per i turisti, a vivere nel presente e nel futuro, a ingrandire le stradine strette e a buttare passatisti e dantisti nell’Arno, per creare, finalmente, una città moderna ed europea al posto della Firenze museale e medievale. Papini scatenò una tempesta d’indignazione, perché il pubblico reagì con furia a quest’offesa da parte di un fiorentino alla propria città natale: urlò e fischiò, soffiò il fischietto e il corno, strepitò con sonagli e volarono verso il palcoscenico pomodori, frutta e verdura.
Papini nella sua foga dissacratoria aveva però dimenticato che anni prima a Firenze aveva operato un architetto come Giuseppe Poggi, che negli anni di Firenze Capitale aveva progettato una città moderna ed europea, con la creazione di infrastrutture che aprivano Firenze all’esterno e all’interno verso il fiume, come i viali di circonvallazione e i lungarni, aree di verde pubblico, piazze ampie e larghe vie, moderni fabbricati residenziali, anche per risolvere questioni di ordine igienico date le condizioni di degrado sociale dell’intero centro storico.
Il piano urbanistico del Poggi fu realizzato solo parzialmente, perché con il trasferimento della capitale a Roma il Comune di Firenze fece fallimento e il progetto si arenò. Il piano era stato osteggiato da intellettuali, artisti, esponenti di spicco della società civile, romanticamente ancorati alla salvaguardia di tutte le vestigia della Firenze rinascimentale e medievale, nonostante che l’architetto fosse un serio professionista e non una testa calda come i futuristi.
Anche oggi nella Firenze che sale esiste una contrapposizione analoga a quella tra futuristi e passatisti sul senso della crescita – se felice o infelice – della città dei Medici. Ci si interroga e si dissente sulle nuove infrastrutture come la tramvia, sulla destinazione di edifici storici dismessi, sul rapporto tra centro storico e periferie, sulla ridefinizione di una moderna forma urbis. Ma sembrano tornati anche i tempi del Poggi e di Firenze Capitale, visto che ieri come oggi ci si lamenta della speculazione immobiliare, dello spreco di denaro pubblico, della lentezza con cui si realizzano le opere, spesso con le parole d’ordine della lotta alla corruzione e della difesa, senza se e senza ma, della città culla del Rinascimento.
Eppure i Medici avevano un motto in latino, Festìna lente, allegorizzato con l’immagine di una tartaruga sospinta da una vela, con il quale invitavano se stessi e la classe dirigente di allora a operare fattivamente anche se con giudizio e accortezza nelle scelte di gestione della città e del Granducato. A maggior ragione in tempi di democrazia i fiorentini, cittadini e non più sudditi, possono invitare i loro amministratori a pianificare il futuro della città senza farsi sedurre da furori futuristici, ma anche senza consegnare una Firenze museificata al turismo di massa.