Giuseppe Laras Corriere della Sera 17 luglio
Niente di nuovo sotto il sole, diceva Qohelet. Drammaticamente è accaduto di nuovo, con profanazione idolatrica di vite, con strage di corpi, con terrore e in mondovisione. Non è la prima volta e neppure l’ultima, siamo solo agli inizi. Non è nemmeno nuova l’idea di lanciarsi con mezzi motorizzati, più o meno grandi, contro la popolazione inerme: l’attentatore l’ha imparato dagli attentati di Hamas contro gli ebrei israeliani (per chiarire che Fratelli Musulmani, Hamas, Hezbollah e Daesh, pur diversi e concorrenti, rispondono a dottrine mortifere non dissimili).
Non è nuova neppure l’impreparazione di politici, critici televisivi e intellettuali, anche blasonati, a decifrare i fatti. Continua la politica suicida e ostinatamente ideologica per cui l’Islam non c’entra nulla. Persiste anche l’attenuante del disagio delle periferie, della drammaticità dell’emigrazione, della mancata integrazione e così via. Si rivisita la storia con paragoni alla Shoah per l’emigrazione islamica incontrollata in Italia e in Europa. Gli ebrei però non fuggivano dai loro correligionari, queste persone sì; gli ebrei non hanno ucciso in massa o fatto stragi di civili tedeschi, austriaci, italiani o ungheresi nel corso della Seconda guerra mondiale, gli attentatori invece sì, e peraltro non mi risulta che ora ci siano in Europa nazisti o fascisti ai governi. Vi è poi il paragone più che improprio con l’emigrazione italiana in America nel ‘900: gli italiani, disagiati e poveri, non compivano queste oscenità e i terroristi islamici con i loro crimini non sono accostabili ai mafiosi italoamericani. L’Italia da cui emigravano gli italiani, infine, era un Paese povero: molti Paesi islamici sono invece Stati ricchissimi. Molti di questi stessi Paesi, che foraggiano il terrorismo, investono in Europa, condizionando l’economia e dunque, specie in tempi di crisi come i nostri, le scelte politiche e persino valoriali (si pensi alle statue velate per non turbare la sensibilità di un politico iraniano, talmente morale da pubblicamente uccidere le persone omosessuali, negare i diritti civili, voler distruggere i milioni di ebrei che vivono in Israele e altre amenità). Quando si hanno così enormi capitali da investire, l’investimento legale e manifesto non è certamente l’unico a disposizione: si possono infatti agilmente addomesticare a cascate di petrodollari giornalisti, politici e intellettuali occidentali. E i paradisi fiscali non tracciabili in questi Paesi oggi non mancano. Tutto questo, che pure è vero, non rende però veritiera l’equazione falsa e razzista che tutti gli immigrati musulmani siano terroristi o potenzialmente tali.
La domanda da farsi in Italia circa i fatti francesi, quindi, non è se accadrà anche da noi, bensì quando, dove e come accadrà. E questo pone questioni pesanti. La prima sul generale cattivo stato della nostra coscienza nazionale. È bastato l’evento della partita dell’Italia per circoscrivere lo choc e il lutto per i connazionali uccisi in Bangladesh: questo è un immenso problema culturale e democratico. Vi è poi il fatto catastrofico di una classe dirigente non educata all’impegno e alla fatica, inclusa quella del pensiero e della strategia. Questo purtroppo riguarda, generalmente, a livello culturale, il mondo cattolico, con intellettuali spesso ottusi dal pacifismo panbuonista e con l’incidenza pressoché nulla di un episcopato rarefatto, ove si avverte l’assenza di personaggi eminenti e di genio, pur tra loro in dissonanza (da C. M. Martini e G. Biffi, da Dossetti a Giussani, da Paolo VI a Giovanni Paolo II). Questo riguarda gli intellettuali, in teoria coscienza critica, strategica e orientativa di un Paese: molti, oltre ad aver abdicato al loro difficile e impegnativo ruolo, svilendolo a salotto radical chic, hanno educato ideologicamente, anche quando non più organici di partito, al terzomondismo più acritico e arrendevole (salvo essere iperaggressivi con Israele, il Sionismo e gli ebrei). Questo riguarda, latitando personaggi di spessore e di sostanza, la politica — e dunque la tenuta democratica del Paese — , con una destra priva di un leader, inchiodata alla parabola medica di Berlusconi, e con una sinistra moderata prossima all’implosione se dovesse cadere il governo Renzi. Quando avverrà in Italia l’analogo dei fatti francesi, è in siffatto contesto che accadrà. Se non è ancora accaduto, è anche merito dei nostri servizi di intelligence e di antiterrorismo, tra cui la Digos, i Ros e alcuni reparti dell’Esercito. Quando accadrà ciò che non è ancora accaduto, ci troveremo tuttavia dinanzi a politici, scandalizzati e moralisti, pronti a chiedere loro ragione, a opinion makers critici e sdegnati, a giornalisti che parleranno di falle nell’antiterrorismo.
Non si può chiedere solo alle forze dell’ordine di salvare la situazione: servono la politica e la cultura; serve non soltanto navigare a vista, ma pensare al futuro e quindi anche alla massiccia crescente demografia islamica in Italia e in Europa; servono e serviranno scelte coraggiose e severe e politiche molto dure. Serve uscire dall’irenismo ottundente e dal vezzo narcisista e nichilista di voler apparire buoni e tolleranti quando però il sangue versato è quello altrui. Resta una speranza, a suo modo messianica: l’essere umano è capace sì di bassezze abissali e di grande stupidità, ma anche di insperati riscatti. Per continuare a vivere dobbiamo impegnarci fattivamente per rendere possibile un necessario domani, migliore dell’oggi
Giuseppe Laras nasce a Torino il 6.4.1935.
Studia al Collegio Rabbinico di Torino dove consegue il titolo di “Maskil” nel gennaio 1956, e la “Semikhà” con il titolo di “Chakham” al Collegio Rabbinico Italiano di Roma nel 1959. È Rabbino Capo di Ancona dal 1959 al 1968, di Livorno dal 1968 al 1980, di Milano dal 1980 al 2005 e nuovamente di Ancona dal 2011. È Direttore del Collegio Rabbinico Italiano dal 1992 al 1999 e Presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia fino al 2009. È Presidente del Bet Din – Tribunale Rabbinico di Milano dal 1980 al 2008 e Tribunale Rabbinico del Centro-Nord Italia dal 2003