Paolo Mieli Il Corriere della Sera 11 gennaio
Nelle pagine iniziali di un importante saggio per metà autobiografico appena pubblicato dal Mulino, Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica, Ernesto Galli della Loggia si sofferma in particolare su uno dei tre verbi di cui al titolo del suo libro: «tradire». Torna, Galli della Loggia, alle parole «gelidamente sarcastiche» dedicate da Francesco Guicciardini, nella Storia d’Italia (Einaudi), ai «repentini cambiamenti di campo», ai «tradimenti plateali», ai «gesti di servilismo non richiesti», quasi sempre «conditi da una losca improntitudine», che accompagnarono nel 1494 la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, preceduto dovunque «dalla fama della sua potenza apparentemente invincibile». Poi, però, lo storico spiega quanti equivoci sono riconducibili a quel termine: tradimento.
E quello degli equivoci riconducibili al tradimento (o supposto tale) è il tema da cui ora prende le mosse un interessante libro di Paolo Buchignani, Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate rosse, che sta per essere pubblicato da Marsilio. Buchignani riflette sulla correlazione tra il mito della «rivoluzione palingenetica» e quello della «rivoluzione tradita». Dal momento che «il paradiso in terra non si realizza mai, la perfezione non essendo di questo mondo», automaticamente, come si è già ampiamente sperimentato a seguito della Rivoluzione francese e di quella russa, i millenaristi si concedono la licenza di denunciare come «tradite» e incompiute tutte le rivoluzioni. Proprio tutte: sia quelle che sfociano nel totalitarismo e li vedono non al potere, bensì esiliati e — se dissidenti — in carcere; sia quelle che portano a «una trasformazione in un contesto di libertà», dal momento che quella trasformazione non appare mai «abbastanza radicale», sicché la società che da essa vien fuori è sempre da considerarsi «inadeguata rispetto alle promesse dell’utopia».
Il discorso vale per tutti i Paesi. Ma l’Italia può vantare dei record per quantità di «rivoluzioni tradite». Qui da noi hanno preso piede le «idee-mito» che siano stati traditi il Risorgimento, la Destra storica e poi la Sinistra, l’Italia liberale, ma anche il fascismo, la Resistenza, la Chiesa cattolica, sia quella tradizionale che quella progressista, il Sessantotto e una serie infinita di «rivoluzioni minori». Idee-mito che hanno incessantemente alimentato i radicalismi di destra, di sinistra (e talvolta anche di centro). I rivoluzionari italiani, di fedi e in stagioni diverse, «interpretano la nostra storia come un susseguirsi di rivoluzioni tradite o incompiute e attribuiscono a sé stessi il compito di completarle». In questa visione, in cui «tutti i tradimenti strettamente si legano», è ben presente, secondo Buchignani, anche «un elemento strumentale che induce a piegare l’esegesi storica alle esigenze della strategia politica».
Responsabile di tutti questi tradimenti — come hanno individuato pezzo per pezzo, ognuno a modo suo, Galli della Loggia, Giovanni Sabbatucci, Roberto Pertici, Luciano Cafagna, Giovanni Belardelli, Massimo Salvadori, Luciano Pellicani, Domenico Settembrini, Emilio Gentile, tutti autori verso i quali Buchignani dichiara il proprio debito — sarebbe stato nei secoli «un moderatismo borghese, utilitaristico, antipopolare, governato dall’interesse ed estraneo agli ideali»: di volta in volta «cavouriano e sabaudo, fascista, democristiano, infine, secondo i sessantottini, comunista» (in ragione della scelta togliattiana della rinuncia all’insurrezione armata nel periodo resistenziale). Tra gli imputati figura anche Enrico Berlinguer, colpevole di non aver colto la presunta occasione rivoluzionaria che si sarebbe presentata a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Nonché di aver teorizzato il «compromesso storico» con la Dc. Cioè con il diavolo.
Da dove viene questo bizzarro apparato ideologico? In principio — almeno per quel che riguarda il Novecento — fu Alfredo Oriani, con i suoi libri La lotta politica in Italia (1892) e La rivolta ideale (1908), successivamente «adottati» dal fascismo (tant’è che verranno ripubblicati con le prefazioni di Giovanni Gentile e di Benito Mussolini). Oriani riproponeva in chiave organica le critiche di Giuseppe Mazzini al modo non rivoluzionario con cui era stata fatta l’Italia. L’influenza di Oriani sui giovani dei primi due decenni del Novecento fu decisiva: lo apprezzarono Giuseppe Prezzolini, Enrico Corradini, Gaetano Salvemini, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Papini e Ardengo Soffici. Tutti nemici di Giovanni Giolitti e del Partito socialista egemonizzato, all’epoca, da quello che per loro era uno spregevole spirito riformistico-borghese. Nei mesi che precedettero l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, i seguaci di Oriani furono tutti interventisti. E nell’interventismo, ha scritto Nicola Matteucci, «sia in quello di destra e cioè nazionalista, sia in quello di sinistra, cattolico-popolare, democratico e socialista mussoliniano, si coagulava la prima grande rivolta populista contro le istituzioni liberali, quali si erano venute formando e consolidando dal 1871 al 1915». Ma ancor maggiore fu l’influenza di Oriani sulle generazioni successive. Oltre a Mussolini e Gentile, da Camillo Pellizzi a Giuseppe Bottai, a Berto Ricci, Vasco Pratolini, Romano Bilenchi, Delio Cantimori molti intellettuali tennero, per così dire, sul comodino i testi di Oriani (che era scomparso nel 1909). E quelli che, come Bilenchi e Cantimori, finita la guerra approdarono al comunismo, portarono con sé nella nuova casa i temi connessi al «tradimento» della rivoluzione risorgimentale cari ad Oriani. Del resto anche Antonio Gramsci e prima di lui Piero Gobetti (per il quale, come notò Augusto Del Noce, Mussolini era il rivoluzionario che aveva «tradito» essendosi messo sulla scia di Giolitti) avevano avuto parole di ammirazione nei confronti di Oriani.
Ai tempi del fascismo la denuncia della rivoluzione tradita non verrà mai meno. Tenderà, anzi, ad accentuarsi proprio negli anni in cui il regime toccherà l’apice del consenso. Ma già all’inizio… Scrive il 18 aprile 1923, su «L’Impero», Curzio Suckert Malaparte: «La rivoluzione d’ottobre (qui si sta parlando di quella fascista dell’ottobre 1922, ndr) non può e non deve ripetere gli errori del Risorgimento, finito in malo modo nel compromesso antirivoluzionario del Settanta, che preparò il ritorno al potere attraverso il liberalismo, la democrazia, il socialismo, di quegli elementi borbonici, granducali, austriacanti, papalini che avevano sempre combattuto e bestemmiato l’idea e gli eroi del Risorgimento. È necessario che il Fascismo prosegua senza esitazioni il suo fatale cammino rivoluzionario».
Nove anni dopo (1932) Berto Ricci, in occasione dei cinquant’anni dalla morte di Giuseppe Garibaldi e dei dieci dalla marcia su Roma, insisterà con queste parole: «I rimasuglioli d’un’Italia nata in falde e cilindro alla quale tutti i distintivi del mondo non daranno mai un’anima nuova e tanto meno un’anima fascista, farebbero bene a non commemorare Garibaldi. C’è un’incompatibilità essenziale tra il liberalismo sia di destra che di sinistra (alle storiche benemerenze della storicissima Destra noi crediamo poco) e il Dittatore; tra i moderati e il Dittatore; tra la borghesia laica e codina e il Dittatore. Oggi come cinquanta, come cento anni fa Egli appartiene al popolo e ai giovani». È a questa tipologia di ragazzi che in seguito, nella seconda metà degli anni Trenta, si rivolgeranno i comunisti definendoli «fratelli in camicia nera».
Verrà poi il momento della guerra civile. Tra l’autunno del 1943 e il 25 aprile 1945, scrive Buchignani, «sovversivi neri di Salò e sovversivi della Resistenza si contendono con le armi in pugno il monopolio del Risorgimento, che entrambi giudicano tradito dalla borghesia e dalla monarchia sabauda». Entrambi reclamano per sé «il monopolio del Risorgimento e della patria pur essendo tutti ugualmente repubblicani e rivoluzionari, inneggiando a Mazzini, Garibaldi, Pisacane, ai fratelli Bandiera: le stesse icone per due patrie contrapposte di cui ciascun contendente legittima la propria e rigetta quella del nemico».
Gran parte dei fascisti e degli antifascisti sono convinti di combattere una guerra rivoluzionaria. E, forse anche perché è più attento a questi aspetti, che, nel dopoguerra, Palmiro Togliatti, servendosi della rivista «Il Pensiero nazionale» di Stanis Ruinas, promuove un’offensiva sotterranea per reclutare ex appartenenti alla Repubblica di Salò. Una manovra di cui si sono già occupati lo stesso Paolo Buchignani in Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-1953 (Mondadori) e Antonio Carioti in Gli orfani di Salò. Il «Sessantotto nero» dei giovani neofascisti nel dopoguerra 1945-1951 nonché I ragazzi della Fiamma. I giovani neofascisti e il progetto della Grande Destra 1952-1958, entrambi editi da Mursia.
Anche qui rispunta l’accusa di tradimento di una rivoluzione. Il Pci — per sottrarre giovani al partito neofascista di Arturo Michelini e di Giorgio Almirante — punta il dito contro il Movimento sociale italiano per «l’alleanza con i monarchici», per «essersi fatto strumento della reazione capitalistica e della polizia di Mario Scelba», per aver accettato il Patto atlantico. Una politica, accusano i comunisti, «in netto contrasto con le aspirazioni e gli obiettivi della sinistra di Salò»; aspirazioni e obiettivi che avrebbero potuto viceversa «trovare attuazione nelle battaglie del Pci, autentico partito rivoluzionario, fautore del socialismo, ma anche difensore della patria contro l’ingerenza americana».
L’allora segretario della Federazione giovanile comunista, Enrico Berlinguer in un discorso al cinema romano Splendore il 10 dicembre 1950 afferma: «Noi e voi (giovani ex fascisti, ndr) siamo più vicini di quel che sembra. Questo qualcosa in comune che ci unisce vi è stato anche quando si combatteva al Nord … I giovani neofascisti, i quali sognano una grande Italia, sanno che tutte le vecchie classi dirigenti tradiscono ancora la gioventù». Tradimenti, sempre tradimenti.
Ancora. Nel 1947 la Dc di Alcide De Gasperi rompe con il Pci e con il Psi. Per il gruppo dirigente comunista il leader democristiano è colpevole di aver «tradito» lo spirito della lotta di Liberazione e di essere così andato a un incontro «con i relitti di Salò che così vedono legittimato il loro rientro sulla scena politica». Sono parole che l’allora vicesegretario del Pci, Luigi Longo, ribadirà addirittura trent’anni dopo, nel 1975, in un libro, Chi ha tradito la Resistenza (Editori Riuniti), nel quale riproporrà il giudizio secondo cui l’estromissione dei comunisti dal governo nel 1947 equivaleva «ad un vero e proprio colpo di Stato». Nel dopoguerra di tradimento della lotta antifascista parleranno anche Lelio Basso, Gaetano Salvemini, Pietro Nenni, Ferruccio Parri e Piero Calamandrei. Il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini dirà — ancora nel 1975 — che al cospetto di una società ingiusta che non somigliava «alle nostre speranze» si poteva affermare che la Resistenza era stata «in parte tradita».
Questo modo di pensare sarà particolarmente diffuso nella generazione del Sessantotto e ancor più in quella della lotta armata. Per qualche considerazione di maggiore equilibrio si dovrà attendere il discorso tenuto a Genova il 25 aprile 2008 da Giorgio Napolitano, quando l’allora presidente della Repubblica denuncerà — proprio «in difesa del mito della Resistenza» — l’esistenza nella sinistra italiana di «un altro mito», a suo avviso, «privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto»: quello «della cosiddetta “Resistenza tradita”, che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza». Parole di grande saggezza, pronunciate però in modo adeguatamente solenne solo sessantatré anni dopo la fine della lotta di Liberazione