Non soltanto la Spagna, alle prese con l’indipendentismo catalano, ma anche altri Paesi, Italia inclusa, hanno a che fare con aspirazioni secessioniste
Angelo Panebianco Corriere della Sera 20 settembre
Non sono solo i diretti interessati, il governo britannico e la regina, ad applaudire al risultato del referendum scozzese. Il senso di sollievo è palesemente diffuso in Europa. Non soltanto la Spagna, alle prese con l’indipendentismo catalano, ma anche altri Paesi, Italia inclusa, hanno a che fare, in modo più o meno serio, con aspirazioni secessioniste. Una vittoria del «sì» in Scozia avrebbe innescato effetti imitativi, avrebbe galvanizzato gli estimatori delle «piccole patrie» sparsi per il Vecchio Continente, fornendo propellente per la loro agitazione politica. La vicenda del referendum scozzese è stata istruttiva. Ci ha impartito tre insegnamenti. In primo luogo, ci ha dimostrato che, nonostante venga affermato il contrario da molti, lo Stato così come si è formato in Europa nel corso dei secoli, il cosiddetto Stato nazionale (nel quale, cioè, esiste un riconoscibile gruppo etno-nazionale dominante) non è affatto morto, continua ad essere percepito dai più – anche da coloro che, come gli scozzesi, non appartengono al gruppo dominante – come un porto sicuro, l’organizzazione politica capace di offrire, rispetto ad altre, maggiore protezione e migliori garanzie per il futuro. Protezione e garanzie che la piccola patria, potenziale vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro (gli Stati nazionali rimasti tali) non è in grado di assicurare.
Il secondo insegnamento è che, comunque, la storia pesa e soprattutto là dove resiste (tramite i racconti famigliari che attraversano le generazioni) la memoria del sangue versato nei secoli passati, l’identità locale, l’identità della piccola patria, mantiene comunque una sua notevole forza politica. La Scozia, per effetto del referendum, è spaccata in due: quasi la metà degli scozzesi si è pronunciata a favore dell’indipendenza. Londra dovrà per forza tenerne conto concedendo più risorse e più poteri. Il terzo insegnamento riguarda l’Europa. L’imbarazzo europeo di fronte al referendum scozzese era palese. E si capisce. L’Unione è una organizzazione di Stati nazionali, costruita a misura degli Stati nazionali. Se una parte di questi ultimi si disgrega l’Unione può soffrirne assai. Altro che «superamento» dello Stato quale meta finale, come hanno ripetuto per anni coloro che si erano autonominati custodi dell’europeismo. L’integrazione europea non implica né presumibilmente implicherà in futuro tale superamento. L’Europa è un club di Stati nazionali legati fra loro da forti interessi comuni.
Come in qualunque club che si rispetti, i soci grandi e forti contano di più di quelli piccoli e deboli. Se i suoi problemi interni non la frenassero, ad esempio, l’Italia sarebbe uno degli Stati dominanti dell’Unione, riconosciuto come tale da tutti gli altri Stati. Come ha dimostrato anche l’incontro tenutosi al Corriere due giorni fa fra gli ambasciatori dei ventotto Paesi dell’Unione, l’europeismo di ciascuno dei ventotto ha motivazioni diverse, che dipendono dalla storia e dalle esigenze geopolitiche di ogni singolo Paese. Se si vuole ridare slancio all’integrazione e frenare l’antieuropeismo montante nell’opinione pubblica, è necessario prendere atto di queste diversità. Restituendo, quanto più è possibile, la perduta flessibilità alle istituzioni dell’Unione. In Europa c’è bisogno sia del vecchio che del nuovo. Servono tuttora i vecchi Stati. Ma serve anche una federazione (di Stati) messa in grado, meglio di quanto possa fare oggi l’Unione, di maneggiare certi problemi comuni. Sul fronte dell’economia come su quello della sicurezza.