Giovanni Belardelli Corriere della Sera 12 Ottobre
Nel marzo 1919 Alphonse Aulard, professore di storia della rivoluzione francese alla Sorbona, formulava un paragone tra il 1789 e il 1917 destinato a una straordinaria fortuna: «Anche la rivoluzione francese è stata compiuta da una minoranza dittatoriale», anch’essa ha dovuto combattere contro i suoi nemici e utilizzare delle procedure che alimentarono l’accusa ai francesi d’essere «dei banditi». Dunque, concludeva, «quando mi dicono che c’è una minoranza che terrorizza la Russia, capisco solo una cosa, che in Russia c’è la rivoluzione».
Ecco, formulata da uno studioso che pure si dichiarava politicamente lontano dai bolscevichi, una delle ragioni, forse la principale, che avrebbero determinato l’enorme fascinazione della Rivoluzione d’Ottobre in tutto l’Occidente, ben oltre i confini di chi militava a sinistra. Secondo questa visione, con la presa del potere da parte di Lenin la rivoluzione, che era iniziata nel 1789 ma presto si era interrotta per l’egoismo della borghesia vincitrice, finalmente riprendeva il suo cammino. E lo riprendeva agitando quella promessa di eguaglianza sociale che i rivoluzionari francesi, si sosteneva, avevano presto dimenticato.
Che si trattasse solo di un’illusione, che in Unione Sovietica nessuna eguaglianza sociale si stesse davvero realizzando (se non nella forma di una generale penuria, da cui erano esclusi però i vertici del regime), questo non ha avuto mai molta importanza per chi ha creduto nel mito dell’Ottobre rosso. Neanche le notizie sulle violenze compiute dai bolscevichi contro i loro oppositori o sulla vera e propria guerra combattuta da Stalin per cancellare i contadini come classe, assassinandoli o deportandoli nel Gulag, furono in grado di distruggere completamente quell’immagine iniziale, di una rivoluzione che issava lo stendardo dell’eguaglianza tra gli uomini.
Ancora nel 1996 a Norberto Bobbio accadde di scrivere che in Urss «il più grandioso tentativo di realizzare in terra la millenaria utopia di una società di eguali si era rovesciato in una spietata forma di dispotismo». Una frase in cui la netta condanna degli esiti politici dell’Ottobre rosso non nascondeva qualche ammirazione per i suoi presupposti ideologici.
Del resto, vari anni prima, Alcide De Gasperi aveva mostrato di ammirare il messaggio universalistico del comunismo sovietico, il cui «formidabile tentativo di accorciare le distanze fra le classi sociali» a suo giudizio era eminentemente cristiano. Perfino lui, dunque, che nell’Italia del dopoguerra si stava opponendo con successo alla sinistra comunista, finiva col seguire quel doppio standard con cui tanta parte delle élites intellettuali e politiche europee hanno valutato per molto tempo le dittature del Novecento: mentre regimi come quello fascista e nazista sono stati condannati anzitutto sulla base dei risultati, cioè delle azioni effettivamente compiute, il regime nato dalla rivoluzione del 1917 è stato giudicato con qualche indulgenza sulla base delle sue premesse (e promesse) ideologiche.
Alla fine degli anni Venti ad alimentare ancor più il mito dell’Urss era intervenuto il primo piano quinquennale varato da Stalin: il processo di collettivizzazione delle campagne e l’industrializzazione forzata che vi si accompagnava parvero a molti non solo un modo per modernizzare un Paese arretrato, ma anche un’alternativa all’irrazionalità dell’economia capitalistica, squassata dalla Grande Crisi innescata dal crollo di Wall Street dell’ottobre 1929. «Il comunismo presentato come un mezzo per migliorare la situazione economica è un insulto alla nostra intelligenza», scrisse un economista di sinistra come John Maynard Keynes nel 1934. Ma molti intellettuali occidentali non la pensavano affatto come lui.
Di fronte ai grandi processi di Mosca cominciarono però ad aumentare i dubbi sul regime nato dalla rivoluzione d’Ottobre. Nel 1937 lo scrittore francese André Gide, che pure in precedenza aveva manifestato le sue simpatie per l’Urss di Stalin, scrisse di ritenere che «in nessun Paese, fosse pure nella Germania di Hitler, lo spirito è meno libero, altrettanto asservito, intimidito (leggi: terrorizzato), schiavo». In quello stesso anno la filosofa Simone Weil definiva i due regimi «quasi identici». Un paragone che nell’agosto 1939 il patto di non aggressione tra Urss e Germania venne a confermare, lasciando nello sconcerto i militanti comunisti, ma anche i tanti che in Occidente ancora simpatizzavano per il regime sovietico.
Sembrò la fine della grande illusione che si era impadronita per anni di milioni di europei. Ci pensò Adolf Hitler, involontariamente, a dare nuova linfa al mito del comunismo. L’attacco all’Unione Sovietica nel giugno 1941 e il ruolo decisivo avuto da questo Paese nella guerra contro la Germania fecero presto dimenticare il patto di due anni prima. L’ex alleato di Hitler, Stalin, diventava uno dei grandi liberatori d’Europa.
Così la grande illusione che si era affermata nel 1917 riacquistava credito e riprendeva slancio. Per molti sarebbe terminata nel 1956, con la rivelazione da parte di Nikita Krusciov dei crimini di Stalin e con l’immagine dei carri armati russi aggressori a Budapest
Per altri avrebbe avuto fine con l’invasione della Cecoslovacchia nell’estate del 1968. Per altri ancora sarebbe durata più a lungo (nel 1977 un sondaggio indicava che la metà dei militanti del Pci riteneva i diritti individuali meglio garantiti in Urss che in Italia), terminando solo nel fatidico 1989 con la caduta del Muro di Berlino.