Sergio Romano Corriere della Sera 9 Maggio 2020
Sono almeno tre i motivi per cui questa epidemia è potenzialmente più grave e minacciosa di quelle che hanno afflitto il mondo nel corso degli ultimi decenni, da quella dell’aids a quelle dell’ebola e della Sars.
Il primo motivo è la dimensione assunta dalla globalizzazione. Non è la prima volta che un bacillo arriva dall’asia. La peste nera scese da un altopiano della Mongolia all’inizio del XIV secolo, raggiunse la Turchia, attraversò la Siria e dalle coste del Mediterraneo entrò in Italia, Svizzera, Francia e Spagna provocando, secondo il calcolo di alcuni demografi, non meno di 30 milioni di morti. I vettori erano i topi che viaggiavano nelle stive mentre i tempi di diffusione del morbo erano quelli delle carovane e delle navi mercantili. Ma il numero degli abitanti nei Paesi aggrediti era molto più modesto mentre oggi tutto è infinitamente più grande e più veloce. È più grande la Cina (un miliardo e 293 milioni). È enormemente cresciuto il turismo; secondo la World Tourism Organization i turisti internazionali, nel 1950, erano circa 25 milioni, mentre nel 2019 i viaggiatori internazionali hanno superato per la prima volta il miliardo: una cifra destinata forse a contrarsi nella fase immediatamente successiva al termine della pandemia. Oggi non vi è importante città europea che non abbia un quartiere cinese, non vi è università europea che non abbia studenti cinesi, sono rari gli uomini d’affari che non abbiano fatto almeno un viaggio in Cina e non c’è linea aerea internazionale che non abbia aumentato i voli per Pechino e Shanghai. La globalizzazione significa quasi sempre maggiore ricchezza. Quanto più numerosi sono i legami che ci uniscono agli altri continenti, tanto più cresce il nostro benessere. Ma oggi sappiamo che quanto più cresce la nostra ricchezza, tanto più crescono i rischi.
Il secondo motivo è l’esistenza, soprattutto nelle democrazie occidentali, di un nuovo diritto. Nel 70° anniversario della Dichiarazione universale per i diritti umani, l’organizzazione mondiale della Sanità ha ricordato che la salute è un diritto fondamentale per tutte le persone. All’epoca delle epidemie di colera a Napoli nel 1884 e nel 1911, o della «spagnola» nel 1918, il diritto alla salute non esisteva. Questo non significa che i governi fossero insensibili all’esistenza di queste minacce e trattassero le epidemie con il «laissez faire» (lasciate fare) che fu il motto dei liberisti francesi sin dal XVII secolo. Lo storico Carlo Cipolla ci ha raccontato come il Gran Ducato di Toscana abbia organizzato i suoi servizi sanitari. E quando nel 1884 Napoli fu colpita dal colera, il re e la regina d’Italia vollero visitare personalmente la città. Ma la salute non era un diritto e nessun governo allora, avrebbe imposto le regole che sono state adottate dal governo Conte nelle scorse settimane con inevitabili ricadute sul funzionamento dell’economia nazionale. Credo che il governo abbia dimostrato grande coraggio e che il Paese, soprattutto nelle regioni maggiormente colpite abbia dato prova di disciplina. Ma gli effetti economici saranno pesanti e non è escluso che suscitino malumori e rimpianti.
Il terzo motivo è la cattiva politica. Alcuni uomini di Stato, dall’Ungheria al Brasile, hanno colto l’occasione per appropriarsi di nuovi poteri. Altri come il governo svedese sino alle scorse settimane, l’inglese Boris Johnson quando era ancora leader dei conservatori alla Camera dei Comuni e lo stesso americano Donald Trump nella fase iniziale dell’epidemia, hanno lasciato intendere più meno esplicitamente che era meglio attendere l’immunità di gregge e «lasciar fare». Altri ancora, particolarmente in Italia, stanno già speculando su quelle che potrebbero essere le reazioni della società quando la serrata (o confinamento, come lo chiamano i francesi) avrà considerevolmente ridotto il prodotto interno del loro Paese.
Di tutti i mali con cui dovremo convivere, quello della cattiva politica nell’epoca di Trump e dei sovranismi, potrebbe essere il peggiore.