Stefano Folli Sole 24 ore 26 ottobre
Non è ancora del tutto chiaro se il “renzismo”, ossia il nuovo stile politico e mediatico del giovane premier fiorentino, costituisca un semplice assestamento del sistema, volto a curarne i difetti e i limiti solo in superficie, ovvero se rappresenti un deciso passo avanti verso una complessiva ridefinizione dell’architettura istituzionale e amministrativa di un’Italia malandata. In questo secondo caso sarebbe da leggere come la risposta di un Paese che vuole risorgere dalle sue macerie, diciamo così, e a tal fine sfrutta a buon fine le opportunità offerte da una congiuntura europea faticosa, a tratti drammatica, ma in definitiva foriera di sviluppi rilevanti. È certo infatti che l’Europa di domani sarà molto diversa, non sappiamo se in meglio o in peggio, da quella che abbiamo conosciuto fino all’altro ieri. Resta invece avvolto nel mistero il vero quesito: se anche l’Italia si trasformerà in sintonia con l’Europa, ovvero se resterà tenacemente aggrappata alle sue peculiarità storiche.
Considerata tale premessa, il nuovo libro di Giovanni Sabbatucci (Partiti e culture politiche nell’Italia unita) offre più di una chiave di lettura per capire – si sarebbe detto un tempo – da dove veniamo e forse dove andiamo. Quello di Sabbatucci, noto storico dell’età contemporanea che fu tra i migliori allievi di Renzo De Felice, è un viaggio nell’Italia politica lungo un secolo e mezzo. Un viaggio che comincia nella stagione liberale post-unitaria e prosegue fino ai nostri giorni cogliendo le linee di frattura e di ricomposizione della vicenda nazionale: dal rapporto complesso fra élite governanti e popolo governato all’irrompere sulla scena dei partiti di massa, dalle grandi crisi che determinano le crisi di sistema alle piccole crisi che provocano scosse di aggiustamento. E poi naturalmente la democrazia dei partiti del secondo dopoguerra, la crescita economica e il declino, il tramonto della Prima Repubblica e il crollo delle classi dirigenti, l’estenuante transizione, Berlusconi che propone se stesso come l’alfa e l’omega della nuova politica (o supposta tale).
Gli anni di Tangentopoli, scrive Sabbatucci, «vedono rifiorire tutte le retoriche dell’anti-politica vecchia e nuova, di destra e di sinistra: la rivolta del popolo contro gli oligarchi, il Paese reale non rappresentato dal Paese legale, la società civile ricettacolo di virtù contro la corruzione della politica, ma anche la polemica contro i partiti, visti ormai come entità parassitarie e strumenti di controllo più che canali di espressione della società. Di nuovo c’è il ruolo della magistratura, vista ora non come corpo dello Stato, ma come alleato e vindice della società civile in rivolta». In questa descrizione si ritrova il “fil rouge” che attraversa la moderna storia d’Italia, in cui si mescolano grandi capacità imprenditoriali, evidente volontà di essere protagonisti dello sviluppo economico e civile, ma anche difficoltà di non poco conto a modernizzare l’assetto politico-istituzionale, a realizzare una compiuta democrazia dell’alternanza, a promuovere e accettare una convincente legittimazione reciproca fra avversari.
Oggi il sistema propone soprattutto il rapporto diretto fra il leader e il suo popolo, o meglio i suoi elettori. I partiti, le organizzazioni classiche, gli stessi sindacati e una serie di corpi intermedi sono scavalcati e di fatto relegati in un ruolo marginale (avendo fatto di tutto, con i loro errori, per essere messi in secondo piano). Quello che conta è l’immediatezza del messaggio, l’abilità nel saltare le vecchie mediazioni. L’archetipo di questa concezione iper-democratica e personalista è stato, come è ovvio, Berlusconi. Il modello che ne deriva è inevitabilmente populista, in un vuoto che comunque viene riempito a fatica. E i cittadini, nota giustamente Sabbatucci, restano diffidenti, non sempre si sentono più vicini a chi governa. In realtà il populismo sembra una scorciatoia per correggere alcune distorsioni della vecchia politica al tempo dei partiti, ma altre ne produce, aprendo spazi imprevisti a chi ha voglia di scendere in campo.
Per cui nelle polemiche di oggi (pensiamo all’irruenza scomposta ma all’inizio efficace di Grillo) si avvertono i riflessi di altri passaggi storici, diversi nelle forme ma non troppo nei contenuti. Dall’anti-parlamentarismo di fine Ottocento, che sfociò nell’assalto a Montecitorio delle «radiose giornate» del maggio 1915, al qualunquismo di Giannini dopo il 1945; dalla contestazione sessantottina con i suoi echi rivoluzionari e la sua coda velenosa, gli anni di piombo; fino alle campagne moralizzatrici contro la degenerazione della partitocrazia, ossia la «casta». Sabbatucci restituisce gli eventi del passato e del presente nel loro spessore storico. E dimostra come l’anomalia italiana abbia bisogno fin troppo spesso di vere e proprie crisi di regime per passare da una fase all’altra. Si torna in definitiva alla domanda iniziale: cosa rappresenta il fenomeno Renzi rispetto a questi scenari? È troppo presto per stabilirlo con certezza, ma forse non è un caso che un personaggio di tale natura, con il suo coraggio e la sua spregiudicatezza, sia emerso in Italia mentre non avrebbe potuto imporsi in tempi brevissimi – c’è da crederlo – in un’altra nazione europea. Per il resto, non c’è che attendere, incrociando le dita.