Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 19 gennaio
C’è una risposta al perché in Italia, nazione cattolica per eccellenza, in tutti i centri abitati e nelle città ci sono vie e piazze intitolate a Giuseppe Garibaldi? Costui non andava dicendo che la Chiesa era «negazione di Dio», «vivaio di vipere», «pestilenziale istituzione»? Non mi sembra che in altri Paesi ci siano altrettante vie o piazze intitolate ai grandi detrattori delle Chiese espressione del culto costà praticato. Alessandro Prandi
Il culto di Garibaldi fu un fenomeno europeo e il suo ruolo, nelle vicende che si conclusero con il compimento dell’Unità, fu tale da oscurare i suoi giudizi sulla Chiesa e sul Papato. Il generale piaceva all’opinione pubblica risorgimentale per le sue gesta e a una larga parte del Paese per il suo socialismo umanitario. Esiste poi un altro fattore non meno importante. La fase che precedette la spedizione in Sicilia fu spesso caratterizzata da liti e bisticci sulle strade da percorrere e le strategie da adottare. Quando Cavour decise che il Piemonte avrebbe combattuto contro l’Austria a fianco della Francia, gli esuli mazziniani di Londra rifiutarono di scendere in campo con il detestabile regime bonapartista di Parigi.
L’episodio è ricordato da Guido Palamenghi Crispi, discendente di Francesco, in un piccolo libro, recentemente pubblicato dalle edizioni P.S., su Repubblica e Monarchia (Il diverbio Mazzini/Crispi).
Fu la prima importante manifestazione di un contrasto che esplose fra il 1864 e il 1865 quando Crispi sostenne, in dura polemica con Mazzini, che l’Italia, per le circostanze in cui aveva realizzato la sua unità, poteva essere soltanto monarchica. Ma questo era soltanto uno dei molti dissensi che avevano diviso la famiglia degli «unitari». Ora, dopo la proclamazione del Regno, occorreva creare l’immagine di una classe dirigente solidale che aveva ardentemente desiderato l’unificazione e aveva affidato le sue sorti alla monarchia sabauda. Mazzini era stato condannato a morte dal governo di Torino, ma era necessario che la sua immagine, nel nuovo Pantheon degli italiani, figurasse accanto a quelle di Cavour e Vittorio Emanuele II. E di Garibaldi, secondo un motto che divenne popolare negli anni successivi, si poteva parlare soltanto bene. Gli storici, più tardi, avrebbero disegnato un quadro più sfumato. Ma «fare gli italiani», come avrebbe detto Massimo d’Azeglio, esigeva forte pedagogia nazionale e giustificava qualche inesattezza. Un altro esempio di conciliazione fra personaggi dalle idee alquanto diverse è nel centro di Milano, sui due lati del lungo rettilineo che collega la medioevale Porta Nuova con piazza dei Mercanti. Sul lato esterno della Porta fu inaugurato nel 1865 un monumento dedicato a Cavour; sul lato opposto, nel 1900, fu innalzato un monumento a Carlo Cattaneo. Il primo voleva un grande Piemonte esteso all’intera penisola. Il secondo diffidava dei Savoia e sognava un Lombardo-Veneto autonomo in uno Stato asburgico profondamente riformato.
Ma Milano amava entrambi e li volle insieme, nel suo centro, anche se a una certa distanza l’uno dall’altro.
Sergio Romano