Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 24 aprile
Dal 28 marzo al 13 ottobre, Rimini, Occhiobello, Cesenatico, Macerata, Tolentino, Pollenza, Castel di Sangro e Pizzo Calabro ricorderanno, con convegni storici e rievocazioni in costume, le battaglie e gli avvenimenti della guerra austro-napoletana del 1815. Secondo alcuni, l’impresa tentata da Gioacchino Murat, durata due mesi e fallita, di unire gli italiani sotto le sue insegne promettendo loro l’indipendenza mediante il Proclama di Rimini fu il primo atto del Risorgimento (che suscitò l’entusiasmo di Manzoni e poi di Carducci). Per altri, fu solo il tentativo disperato di porre le grandi potenze di fronte al fatto compiuto di un ingrandimento territoriale per conservare il Regno di Napoli che Napoleone gli aveva dato, e che le potenze vincitrici nel Congresso di Vienna non intendevano confermargli. Qual è la sua opinione?
Maurizio Romanato
Caro Romanato,
Dopo Waterloo, la dissoluzione dell’Impero napoleonico e la partenza del suo fondatore per Sant’Elena, cominciò nella penisola italiana una frenetica caccia all’eredità. Chi aveva il potere cercò di conservarlo, chi non lo aveva cercò di conquistarlo. Direttamente o indirettamente, la grande esperienza napoleonica aveva contribuito alla diffusione nelle masse popolari del concetto di nazione. Era accaduto in Spagna nel 1812 e in Germania nel 1813. Perché non sarebbe dovuto accadere anche in Italia? Perché gli italiani non avrebbero colto l’occasione per rivendicare il loro diritto all’unità nazionale? Nella storia d’Italia dal 1796 a oggi (La Forza del destino, Laterza 2008), Christopher Duggan ricorda che nel 1814, risalendo la penisola, il comandante delle truppe inglesi in Italia Lord Bentinck aveva esortato gli italiani a prendere le armi per dare un segno della loro esistenza e delle loro ambizioni. In Lombardia, alcuni nobili liberali, desiderosi di conservare il napoleonico Regno d’Italia, erano disposti ad accettare che sul trono continuasse a sedere Eugenio Beauharnais. Il caso più spettacolare fu quello di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e re di Napoli. Alla fine di marzo del 1815, quando apprese che l’imperatore era tornato in Francia dall’Elba, Murat lanciò da Rimini il proclama a cui lei, caro Romanato, allude nella sua lettera: un testo che comincia con le parole «L’ora è venuta che debbono compiersi gli alti destini d’Italia». Il re maresciallo cominciò a scendere lungo la penisola per riprendere possesso del suo regno napoletano, ma fu fermato dagli austriaci a Tolentino. Non rinunciò tuttavia al suo disegno e tornò in scena in ottobre sbarcando in Calabria, sulla costa di Pizzo Calabro, con 250 compagni. Sperava di essere accolto entusiasticamente, ma s’imbatté nell’ostilità dei suoi vecchi sudditi e venne passato per le armi dalle truppe borboniche il 13 ottobre 1815. Di quell’avventura esiste una cronaca scovata da Pier Luigi Vercesi per un brillante libro su giornali e giornalisti italiani dal 1815 agli anni Sessanta del secolo scorso (Ne ammazza più la penna. Storie d’Italia vissute nelle redazioni dei giornali, Sellerio 2014). La cronaca apparve sul Messaggiero modenese del 25 ottobre e riferisce tra l’altro questa testimonianza del canonico di Pizzo: «Fischi, sputi in faccia, strappato di capelli, di barba e di mustacchio, colpi di fucile, bastoni, schiaffi, anche di donnicciole, e ridotto in modo che la pietà della gente pulita accorse per ricoprirlo con nuove vesti e tele perché lasciato lacere e mezzo ignudo». Sembra che in Calabria non fosse amato perché aveva nuociuto al traffico della costa con le sue leggi contro il contrabbando del sale. In queste descrizioni dell’Italia postnapoleonica vi sono certamente i primi segnali del Risorgimento. Ma vi è anche l’amara constatazione che i primi nemici dell’unità nazionale italiana furono per molto tempo gli italiani
Sergio Romano