Dalle lettere a Sergio Romano nel Corriere della Sera del 16 ottobre.
Lei (Sergio Romano) ha scritto che i «Promessi sposi» e le «Confessioni di un italiano» sono i due grandi romanzi del nostro Risorgimento. Ora risorgimentale è senz’altro il capolavoro di Ippolito Nievo (il quale a mio avviso non può essere considerato un autore minore, non fosse altro perché ci ha regalato un’eroina del calibro della Pisana). Ad Alessandro Manzoni va invece riconosciuto il merito di aver contribuito alla causa dimostrando agli italiani che la nostra è una bellissima lingua. Il suo romanzo però trasmette il messaggio che sia una fortuna per l’Italia godere delle protezione di Santa romana Chiesa; e non mi pare che tale visione sia proprio in sintonia con l’atmosfera e gli eventi del Risorgimento Giorgio Vergili
Caro Vergili, non sono sicuro che il messaggio dei Promessi sposi sia quello suggerito nelle sua lettera. Credo che Manzoni pensasse alla provvidenza divina piuttosto che alla Chiesa romana, con cui non ebbe rapporti intimi (non mise mai piede a Roma). Ma è certamente vero che nel suo libro non vi è, neppure per cenni indiretti, il concetto di Stato unitario nazionale. Manzoni fu certamente risorgimentale, tuttavia, quando sostenne il Piemonte dopo il 1849, elogiò la strategia dei Savoia nel suo saggio incompiuto sul confronto tra la rivoluzione francese e la rivoluzione italiana, ricevette Vittorio Emanuele II a Milano nel 1859, divenne senatore del Regno, accettò di presiedere la commissione di studio sulla lingua nazionale e di trarne le conseguenze in un rapporto per il ministro della Pubblica istruzione. In un elenco dei romanzi risorgimentali bisognerebbe includere, invece, un’opera incompiuta, nata nell’ambito degli amici e familiari dell’autore dei «Promessi sposi». Il romanzo è la «Lega lombarda» e l’autore Massimo d’Azeglio, genero di Manzoni (ne sposò la figlia Giulia), uno dei più interessanti e singolari protagonisti della fase storica che precede l’unità nazionale. D’Azeglio non fu soltanto presidente del Consiglio dopo la sconfitta di Novara, parlamentare, incaricato di missioni diplomatiche, autore di brillanti pamphlet sulla situazione politica della penisola, voce acuta e nonconformista nel grandi dibattiti risorgimentali. Fu anche pittore, scrittore, autore di drammi e romanzi. Dopo due romanzi storici («Ettore Fieramosca» e «Niccolò de’ Lapi») decise di ricercare nel Medio Evo le radici dell’indipendenza italiana e cominciò a scrivere nel 1843 un romanzo sulla lotta di Milano contro l’imperatore Federico Barbarossa. La «Lega lombarda » non fu terminata. Dopo otto capitoli, apparsi soltanto dopo la sua morte, D’Azeglio interruppe il lavoro. A chi gliene chiedeva il motivo, rispondeva che lo scopo dei suoi romanzi era politico: voleva dire, sotto il velo della finzione letteraria, ciò che gli sarebbe stato impossibile scrivere sulla maggior parte dei giornali della penisola. Dopo i moti del 1848 diceva: «A che scrivere dei volumi e ravvolgere il mio pensiero sotto la covertura di una lunga e difficile invenzione, quando ormai posso far intendere tutto quello che mi piace, e più chiaramente, e più interamente, in una mezza colonna di giornale, o in un opuscolo di quattro pagine?». P.S. Non esiste una edizione recente della «Lega lombarda », ma Umberto Bossi potrà trovarne una copia in tutte le Biblioteche civiche della Padania.
Sergio Romano