Ponte alla Vittoria e Oltrarno nei primi anni del 900
Nel 1918 ogni mattina prima delle 6 mio nonno Leone, falegname stipettaio, usciva dalla sua casa in Oltrarno, in via della Fonderia, vicino al Ponte alla Vittoria, e si incamminava verso le colline sopra il Galluzzo, diretto alla villa che il Principe Abamelek aveva messo a disposizione dello Stato italiano.
Lì venivano portati dall’ospedale militare i soldati che avevano subito amputazioni agli arti. Mio nonno e gli altri falegnami specializzati prendevano accuratamente le misure, proprio come fanno i sarti, ma invece che un cappotto o una giacca dovevano rifare dita, mani e piedi a persone che non le avevano più. Le falangi dovevano avere i loro snodi e poter essere piegate, un polso doveva ruotare quando serviva, il lavoro, perfetto dati i materiali di allora, doveva permettere alla persona, una volta applicata la protesi, di impugnare fermamente o reggere un oggetto con la mano di legno, e di lavorarci con l’altra. Oppure di stare in piedi su piedi di legno, anch’essi snodabili. Si lavorava mantenendo un ritmo elevato ma regolare, che permettesse agli artigiani di rendersi conto bene di ciò che facevano perché ogni protesi era diversa e doveva servire per la vita. Molti soldati, a parte le mutilazioni, apparivano emaciati e in cattive condizioni generali. Un giorno mio nonno si sentì male. Un grande senso di tristezza e di oppressione. Non vedeva i colori, tutto sembrava grigio. Era spossato, aveva la febbre alta e respirava a fatica. Aveva preso la Spagnola. In casa sua la prese anche la bambina più grande, Aurora, di 5 anni, mentre furono risparmiate la nonna Dina e la Leonetta, di 2 anni. Poi Aurora guarì, e guarì anche il nonno, e tornò a lavorare, ma per diverso tempo quel senso di tristezza gli rimase. Ritornò a vedere i colori piano piano e tornò tutto come prima.
Sono passati un po’ più di cent’anni da allora, mio babbo non era ancora nato, delle zie più grandi una già sgambettava per il mondo, l’altra si mordeva i piedi con un certo entusiasmo, ma ancora non camminava. Le altre due zie sarebbero spuntate poi, dopo la nascita di mio padre. Videro la luce in un mondo diverso da quello su cui si erano affacciate le sorelle maggiori, e tutti i sabati sarebbero state vestite da Piccole Italiane, calzini bianchi, gonna nera, camicetta bianca con lo stemma quadrato verde-bianco-nero-rosso (deduco che questi fossero i colori) dalla parte del cuore, e un baschetto in testa, col braccino destro sollevato nel saluto romano, tutte serie, come racconta la piccola foto in bianco-nero che ho trovato dopo la morte della Pippa. So che ai nonni dover mandare le bambine alle cerimonie di regime non piaceva per niente. E poi l’uniforme costava: era una spesa obbligata che, per famiglie che tiravano la cinghia, pregiudicava irrimediabilmente l’acquisto di cose davvero indispensabili, come altra legna per la stufa, un po’ di cibo in più, un paio di scarpe.
Riguardo al fascismo, l’atteggiamento giovanile delle componenti della nidiata familiare rimase strettamente collegato con l’anno di nascita: Aurora, nata nel 1913, e Leonetta, nata nel 1917, conservarono fin da piccine una certa distanza, una impermeabilità riservata. Semmai, in via della Fonderia, nel quartiere di San Frediano, andavano alla parrocchia del Pignone e frequentavano alcuni religiosi, di buona caratura morale, che si mantenevano molto freddi verso il regime. Le ripetute violenze delle squadracce, la notte di sangue del 1922, la paura diffusa nel quartiere, tra i vicini e gli amici, avevano lasciato come un deposito nella testa delle due sorelle maggiori, che le aveva protette e vaccinate anche quando il fascismo, indossato il doppiopetto, assunse l’immagine benevola e rassicurante di Mussolini padre ideale di tutti i bimbi d’Italia.
Mio babbo, nato nel 1920, da ragazzino era anche lui un po’ nella scia delle sorelle più grandi e di Leone, il padre falegname, che aveva sempre uno o due amici sovversivi che venivano a trovarlo in bottega, per chiacchierare, sfogarsi e fare qualche battuta in libertà. Così, a mio babbo ragazzino, del Duce e del Re gli importava il giusto. Aggiungerei che anche il Papa non doveva garbargli troppo, anche se poi andava con gli amici a suonare le campane al Pignone, e salivano non visti sul tetto del campanile, ma quello era per avventura. Però lo affascinavano il transatlantico Rex, che sarà affondato nel 1944, e tutte le meraviglie della nostra Marina, militare e civile. A dodici anni era fermamente convinto che in Italia si facessero le navi più belle del mondo. Così si infilò nei Balilla Marinaretti, indossò la divisa blu della Marina Militare italiana e il sabato andava a remare sull’Arno. Gli pareva una cosa più allegra e romantica che il sabato doversi mascherare col fez, la camicia nera e i pantaloni corti grigioverdi, come la maggior parte dei suoi compagni di scuola. Veniamo alle sorelle più giovani, Giuseppina (le dettero questo nome per via di Garibaldi, ma poi in casa l’hanno sempre chiamata Pippa) aveva i capelli rossi, era agile, snodata, burlona, spepera, menefreghista e, anche se con la nonna Dina c’era poco da scherzare, riusciva più degli altri a fare come le pareva. Ragazzina ideale per figurare nei saggi ginnici, una volta in quarta elementare, doveva essere il ’32, vinse anche un concorso su tema assegnato, roba tipo ‘i doveri dei bambini italiani’ o ‘il compito dell’Italia nel mondo. La fotografarono mentre il ras Alessandro Pavolini consegnava proprio a lei l’attestato di merito, e il fatto che quella fotografia fosse stata prudentemente distrutta, nei giorni della Liberazione, fu sempre vissuto con cruccio e rabbia da parte della Pippa: ‘macché problemi e problemi, avevo 9 anni, il mio tema era stato il migliore e la foto era un documento storico. Oltretutto era mia. Perché distruggerla? Non c’era da aver paura, la guerra ormai ci aveva aperto gli occhi, a tutti, e avevamo rifiutato il fascismo…’ e via dicendo.
Maria Grazia era l’ultima, morta un anno fa a 96 anni e mezzo dopo che, disciplinatamente in ordine di età, le altre sorelle e il fratello se ne erano andati al termine di vite lunghe, spesso sofferte, a momenti serene, vissute con coerenza, testardaggine e ironia, ognuno a suo modo. Aveva 15 anni quando scoppiò la guerra, le sorelle più grandi lavoravano, Aurora appena sposata era rimasta vedova con due bambine piccolissime, Nando lavorava e studiava, la nonna Dina tornava stanca dal suo lavoro di bidella, il nonno Leone lavorava senza riuscire a farsi pagare. La Pippa stava a scuola di ricamo da due sorelle ricamatrici fiorentine, straordinariamente brave, e in casa non dava grandi aiuti. Così tutto il peso della casa, lavare, stirare, cucinare, riassettare, cambiare le bambine, ricadeva sulla Grazia, che si sentiva prigioniera e derubata della vita. Dopo le elementari era andato avanti negli studi soltanto Nando, per l’opera di convincimento sulla nonna di alcuni suoi insegnanti, per le borse di studio, perché maschio. Invece le sorelle, terminata la scuola dell’obbligo, vennero avviate al lavoro. Nessuna di loro era svogliata o stupida, anzi! Ma in famiglia soldi non c’erano, e bisognava scegliere.
Il 10 giugno 1940 Maria Grazia meditava sul grigiore dei suoi 15 anni e sui sogni infranti quando sentì la notizia: ‘Combattenti di terra, di mare, dell’aria… l’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria… l’ora delle decisioni irrevocabili… la dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia! Scendiamo in campo…’ e pensò immediatamente: bene che c’è la guerra, qualcosa si muoverà, alla fine cambierà qualcosa, in questo grande squallore… che razza di imbecille che ero, io, Maria Grazia,in seguito si disse, quando nella guerra ci cascammo in pieno: non mangiavamo, le cannonate ci portavano via pezzi di casa e io tornavo dal lavoro, nella città vuota, con i passi dei soldati tedeschi che mi seguivano… Ma queste cose le sappiamo sempre col senno del poi! A 15 anni per un momento credetti che la guerra potesse essere un’opportunità, e come me lo credettero molti adulti che pure avevano passato la Grande Guerra, e dovevano sapere come stavano le cose. Però mio babbo, mia mamma, le mie sorelle maggiori e mio fratello videro fin da subito il nostro ingresso in guerra come una tragedia. Probabilmente anche la Pippa, chissà.
Ho raccontato un pezzettino della storia di una famiglia come tante, normali vite di donne e uomini non illustri che non avrebbero interessato la penna di Plutarco, che proponeva degli exempla. E la storia acquista un senso partendo dalla gente comune, dai fatti, dalle esperienze, dalle contraddizioni, dagli ideali e dalle speranze della gente. Ascoltiamo un po’ di più le testimonianze delle persone comuni, mettiamole a confronto, da quarant’anni ormai donne e uomini raccontano pochissimo della propria vita passata, delle proprie scelte ed esperienze. Facciamo che non sia così. Ci aiuterà ad essere migliori, come storici e come esseri umani.
Livio Ghelli