La pochezza delle classi dirigenti europee, che hanno creduto di poter fare a meno del consenso dei popoli, ha generato il fallimento. Le istituzioni comunitarie hanno perso credibilità agli occhi dei cittadini, che le ritengono troppo lontane
Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 7 luglio
Per l’europeismo ufficiale — quello che da anni domina la retorica politico-burocratico-giornalistica — la sconfitta del voto greco non potrebbe essere più bruciante. Convinto in virtù dei suoi chilometrici trattati e delle sue brillanti politiche di poterla fare finita una volta per tutte con i nazionalismi europei, esso assiste oggi alla più violenta esplosione di sentimenti nazional / nazionalistici che il Continente abbia conosciuto dal 1945 in poi. Un’esplosione conseguenza diretta di quei trattati e di quelle politiche, e che quasi sempre, ahimé, si trascina dietro demagogie isolazionistiche, pulsioni xenofobe, fremiti di vario autoritarismo.
Un bel risultato, non c’è che dire.
Un risultato non casuale. Esso infatti è la conseguenza del duplice fraintendimento che ha accompagnato tutta la vita della costruzione europea, e che costituisce il motivo conduttore di quel Manifesto di Ventotene che l’Unione continua inspiegabilmente a considerare come una sua pietra di fondazione. Il duplice fraintendimento è consistito e consiste: a) nel considerare ormai esaurita ogni funzione storica positiva dello Stato nazionale, e b) nel credere dunque che la semplice esistenza del suddetto Stato sia destinata a produrre inevitabilmente la patologia del nazionalismo. Partendo da questo erroneo giudizio, l’Europa non è mai riuscita a ragionare intorno a un dato decisivo: e cioè che nella concreta esperienza del continente lo Stato nazionale che essa intendeva «superare» era tuttavia, né più né meno, che il contenitore storico della sovranità popolare e della democrazia rappresentativa. E che dunque ogni colpo portato alla sua esistenza, ai suoi poteri, alla sua sovranità, ogni ampliamento dell’ambito di competenze comunitarie (figuriamoci poi nel caso della moneta!), rischiava di suscitare prima o poi una reazione tra i cittadini europei, per l’appunto in nome del sentimento democratico. Come infatti è puntualmente avvenuto e sta avvenendo dappertutto; come sempre più sicuramente avverrà.
Questo è il segnale che giunge da Atene. Al limite l’oggetto del voto (l’austerità richiesta da Bruxelles) è un dato secondario. Ciò che conta è il carattere dirompente della contrapposizione: da una parte degli organi burocratici, dei conciliaboli riservati di ministri e primi ministri (senza pubblicità di dibattiti, senza composizioni formali: perché oggi, ad esempio, un incontro Hollande-Merkel da soli? Chi l’ha deciso?) e dall’altra la volontà popolare e la sua sovranità.
A questo siamo arrivati per colpa della pochezza delle classi dirigenti politiche europee che da vent’anni gestiscono l’Unione. Una pochezza che tra l’altro — almeno nel caso dei politici italiani — subito, appena questi siedono in qualche consesso europeo, si ammanta di una supponenza sussiegosa che poi dispiegano anche quando discettano di Europa una volta tornati a casa. E così, pur essendo essi, e solo essi, gli autori di trattati ritenuti in seguito unanimemente sbagliati, di politiche che hanno mancato l’obiettivo, di mostruosi progetti di costituzione mai andati in porto, sono qui ancora oggi che mentre tutto va in pezzi, invece di osservare almeno un cauto silenzio, si ergono a critici pensosi e sapienti dei loro stessi sbagli e delle loro stesse opinioni di ieri.
L’Europa ha perso paurosamente di credibilità agli occhi dei suoi cittadini anche per questa diffusa irresponsabilità politica, contraria a ogni regola democratica: chi sbaglia non paga mai, e anzi continua a farla da maestro.
Ma è una pochezza che a ben vedere ha riguardato e riguarda, prima che gli uomini, entrambe le culture politiche finora egemoni nell’Europa occidentale del dopoguerra e quindi anche a Bruxelles: quella cristiano-democratica e quella socialdemocratica (nella quale sono poi confluiti gli ex comunisti). Nell’ambito europeo, sottratte a ogni vera competizione e avvolte nella morbida atmosfera del compromesso continuo, esse hanno trovato la sede elettiva per acquisire, insieme a una loro compiaciuta e definitiva ufficialità una completa spoliticizzazione. È come se frequentando l’Ue cristiano-democratici e socialdemocratici avessero smarrito ogni senso vivo della storia europea e della drammaticità dei suoi nodi peculiari (lo Stato nazionale, i vincoli di consenso posti dalla democrazia, ma anche il problema del confine orientale, il rapporto con la sponda sud del Mediterraneo, eccetera). Ogni senso vivo della storia innanzitutto politica dell’Europa. E del loro rapporto con essa.
Adagiatesi nel conformismo comunitario dell’ortodossia economico-sociale, le due principali culture politiche del Continente appaiono da anni incapaci di pensare nient’altro che la routine, di avere uno scatto d’immaginazione, un sussulto d’indignazione, di abbandonare le strade rivelatesi sbagliate: in fin dei conti di ricordarsi le ragioni per cui sono nate e degli elettorati che esse rappresentano.
Di fronte al precipitare della crisi greca, e poi al voto di domenica, è stato impressionante lo spettacolo offerto in particolare dalla sinistra europea: ascoltare le incertezze di Hollande e di Renzi, vedere la socialdemocrazia tedesca immediatamente pronta a proclamare la propria fedeltà alla cancelliera Merkel. Ma intendiamoci, un maggiore bagaglio di idee e di visione non hanno certo mostrato i loro avversari interni. Per restare in Italia, i vari Fassina, Vendola, D’Attorre, che cosa hanno saputo proporre se non vuoti slogan a base di «Una politica di sviluppo», «No all’Europa delle banche», «Sì a un’Europa democratica»? Già: ma come? Con quali regole? Con quali istituzioni? Nessuno lo sa.