Nella rubrica delle lettere che Sergio Romano tiene quotidianamente sul Corriere della Sera l’opinionista recentemente risponde ad una lettrice definendo Giuseppe Verdi “conservatore risorgimentale”. Domenica 20 gennaio, Lucio Villari, noto storico del Risorgimento, in una lettera al Corriere nega questa definizione data al musicista, perché ne sminuisce il valore della personalità; a Villari risponde Sergio Romano, confermando di fatto il giudizio.
Al fine di far conoscere una memoria non apologetica, ma ricca di chiaroscuri dei protagonisti e delle vicende del nostro Risorgimento pubblichiamo volentieri questo contraddittorio Sergio Casprini
LE TRE PATRIE DI VERDI: L’ITALIA, LA MUSICA, IL TEATRO
Il ricordo del bicentenario di Verdi richiama certamente momenti importanti della nostra storia nazionale della quale egli fu testimone e partecipe. Semplificare questa testimonianza e partecipazione—che furono artistiche e politiche— a una quasi sua involontaria presenza nelle vicende del Risorgimento penso che non risponda alla verità storica. Verdi fu attratto dal mazzinianesimo (aveva 18 anni quando Mazzini fondò la Giovine Italia) e anche dalle barricate delle Cinque giornate di Milano. Fu tenace difensore della sovranità nazionale italiana, ammirò la strategia politica e la persona di Cavour (dal quale fu convinto a candidarsi nel primo parlamento dell’Italia unita), riconobbe in Manzoni non solo il grande scrittore ma l’intellettuale politicamente «impegnato» che credette nell’unità d’Italia. E così via. So che storici della musica e musicologi hanno sempre minimizzato la consapevolezza politica di Verdi, ma la conoscenza dei documenti e dei fatti dimostra il contrario e molte sue opere furono pensate e scritte con librettisti patrioti e combattenti. Egli sapeva benissimo cosa era l’entusiasmo patriottico che suscitavano le sue musiche sia nella Roma repubblicana del 1849 sia alla Scala o alla Fenice. Il «W Verdi», scritto sui muri non era un acrostico, ma un omaggio popolare a un grande musicista che seppe leggere, certo con lo stile e il carattere riservato che ben conosciamo, il tempo storico e gli ideali politici degli italiani migliori: dai moderati ai repubblicani, dai mazziniani ai garibaldini. Forse definirlo «conservatore risorgimentale» riduce molto la sua complessa personalità.
Lucio Villari
Caro Villari,
In un libro recente, scritto in occasione del 150˚ anniversario dell’Unità (Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento ed. Laterza) lei ha scritto che Verdi appartiene alla generazione di Leopardi, Manzoni, Hayez, Cavour, Mazzini, Garibaldi, De Sanctis, d’Azeglio, Nievo, Pisacane. Furono poeti, romanzieri, pittori, storici della letteratura, uomini politici, teorici dello Stato, soldati e agitatori. Ma tutti reagirono al clima retrivo della Restaurazione ed ebbero una stessa angoscia: «che l’Italia rischiasse di perdersi per sempre». Lei pensa quindi che il grande coro del Nabucco («Oh mia patria si bella e perduta! Oh membranza si cara e fatal!») appartenga a questo clima morale e ci dica, sia pure indirettamente, quali fossero i sentimenti politici dell’autore. È certamente vero, ma io credo che il sentimento nazionale di Verdi sia legato alla storia del teatro europeo nel secondo e nel terzo decennio dell’Ottocento. Nel 1828, in una prefazione al suo primo grande dramma storico («Cromwell»), Victor Hugo lanciò il manifesto del romanticismo teatrale e auspicò drammi storici, dominati da grandi passioni umane, liberi dai vincoli delle regole aristoteliche. Durante la prima del suo «Hernani» alla Comédie Française il 25 febbraio 1830, l’azione si spostò in platea dove scoppiò una tumultuosa battaglia fra romantici e neoclassici. Pochi mesi dopo, il 25 agosto, la rappresentazione della «Muta di Portici» al Théatre de la Monnaie di Bruxelles fu la miccia che fece esplodere la rivoluzione belga. In ciascuno di questi drammi e nell’Ernani di Verdi che andò in scena alla Fenice il 9 marzo 1844, vi sono re, tiranni, congiurati e fremiti di libertà, ma vi sono soprattutto grandi amori, perfidi tradimenti e divoranti passioni. Nella prima metà dell’Ottocento il teatro smette di essere il salotto musicale delle aristocrazie e delle corti per diventare un luogo «borghese » in cui una nuova classe sociale desidera assistere alla rappresentazione dei propri sentimenti. Verdi capì che la distanza fra la scena e la piazza si era fortemente accorciata e seppe interpretare meglio di altri gli umori di questa nuova società. Ma credo che la sua vera patria fosse la musica e che nel suo patriottismo vi fosse anche il compiaciuto orgoglio di un uomo che sapeva di essere divenuto un simbolo risorgimentale. Quanto alle sue posizioni politiche, gli otto giorni passati nella Villa imperiale di Napoleone III a Compiègne nell’autunno del 1856 e i due incontri con il generale Bava Beccaris dopo i moti milanesi del 1898 dimostrano che era anche uomo d’ordine.
Sergio Romano