Gennaro Sangiuliano Il Sole 24 Ore domenica 18 gennaio
«Assisto la notte violentata. L’aria è crivellata come una trina, dalle schioppettate degli uomini, ritratti nelle trincee come le lumache nel loro guscio». Sono i primi versi di una poesia di Giuseppe Ungaretti, Immagini di guerra scritta in una trincea di Valloncello di Cima, nella zona del monte San Michele, che fu uno dei teatri più duri della Grande Guerra, un’autentica fornace di vite umane. «Non dire alla povera mamma che io sia morto solo», scrive, invece, Corrado Alvaro, giovane ufficiale, che definisce le sue poesie dal fronte «grigio-verdi», come la divisa dei militari.
Quella di «poeta soldato» è una formula ricorrente. La Prima guerra mondiale è certamente quella dei contadini scaraventati in un «inutile massacro», secondo la definizione che ne dette papa Benedetto XV, il primo conflitto di massa, la guerra della modernità. Ma è anche il momento a cui scrittori, poeti, giornalisti, accademici, non possono sottrarsi, perché dopo tante parole appare chiaro il “dovere” come osservò Gaetano Salvemini.
Le trincee, il fango, il freddo, le mitragliatrici, e soprattutto la morte di tanti commilitoni si riveleranno il banco di prova per una generazione di intellettuali, molti dei quali quella guerra l’avevano agognata come forza rigeneratrice. I mesi che precedono l’ingresso dell’Italia nel conflitto (maggio 1915) sono quelli dello scontro dialettico tra interventisti e neutralisti, dove i primi, inizialmente una minoranza, riescono a imporre a una nazione titubante la partecipazione al conflitto.
«Badate», scrive in una lettera privata Benedetto Croce a Giuseppe Prezzolini, «che la grande maggioranza della nazione non sente la guerra; e se di quella tedesca è stato detto (a torto) che era la guerra degli ufficiali, questa nostra (a ragione) dovrebbe dirsi guerra dei giornalisti». E aggiunge: «Tutti i giornalisti (e mi dispiace, anche voi!) esortano ora a prepararsi e fare presto; ma ahimè, oportet studuisse, non studere, come si dice ai ragazzi negligenti che vogliono superar gli esami con la preparazione degli ultimi giorni!».
Croce, nonostante il grande prestigio, è voce dissonante tra gli intellettuali. La minoranza a cui piace l’intervento, è quella delle élite culturali, delle avanguardie, che si sono formate nella stagione delle riviste sostanziando quello che gli storici definiranno come il primo «partito degli intellettuali». D’Annunzio e i suoi seguaci, gli eredi del «Marzocco» del «Leonardo», «La Voce», «Il Regno», «Lacerba», l’«Unità» di Salvemini, i futuristi e i sindacalisti rivoluzionari.
Sono quei giovani che si erano raccolti attorno al motto di Giovanni Amendola, il futuro leader dell’antifascismo dell’Aventino, «L’Italia come oggi è non ci piace». L’auspicio di una guerra assume per questi intellettuali un significato che va ben oltre il contesto internazionale, il completamento del Risorgimento, la conquista di terre irredente; le ragioni che spingono a chiedere un «lavacro di sangue» sono la ricerca di un grande fatto dinamico nazionale, capace di cementare lo spirito indentitario del Paese.
Giuseppe Prezzolini, il fondatore della «Voce», è il più chiaro: «Il principale interesse è questo che l’Italia è fatta, ma non è compiuta. E soprattutto che l’Italia non essendosi fatta da sola aspetta finalmente l’atto che la dimostrerà capace di fare da sé… Si tratta di sapere se siamo una nazione».
Gaetano Salvemini, anche lui, come Amendola, destinato a essere un fiero oppositore del fascismo, aveva scritto: «Ma per quanto la guerra sia un fatto orribile e odioso a causa dei milioni di ricchezza che essa distrugge e delle migliaia di vite umane che maciulla in pochi giorni, io non posso non riconoscere che vi sono paci più orribili e più odiose della guerra: sono le paci che consumano a fuoco lento i popoli».
Nelle trincee, la baldanza interventista lascerà il posto ai dubbi, alla percezione diretta della tragicità di una guerra. Tocca a un giovane intellettuale, Renato Serra, indicato da Croce come una delle menti più brillanti della gioventù italiana, esprimere, meglio di altri, questo cambiamento di umore. Serra scrive Esame di coscienza di un letterato, un’analisi dell’io di fronte alla tragicità del conflitto, un testo che la critica, a cominciare da Carlo Bo, giudicherà tra i più penetranti testi sul rapporto tra guerra e individuo.
«La guerra non cambia niente», avverte Serra, «Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia. Il cuore dura fatica ad ammetterlo». A trentuno anni, nel 1915, dopo aver concluso il suo testo, Renato Serra morirà in combattimento sul monte Podgora, nell’Esame di coscienza aveva citato il francese Charles Péguy, l’inventore della rivista «Cahiers de la Quinzaine» che più di altri aveva influenzato la generazione dei giovani scrittori italiani.
Anche Péguy muore in una trincea.
Carlo Emilio Gadda ridefinirà se stesso alla luce della guerra, dicendosi «poeta-filosofo-soldato» perché l’esperienza del fronte lo ha segnato irreversibilmente come Emilio Lussu che narra il duro conflitto sulle montagne con Un anno sull’Altipiano. Giosué Borsi scrive una toccante lettera alla madre e Ungaretti nota come «quel contadino soldato si affida alla medaglia di Sant’Antonio» sottolineando gesti comuni come il conforto della fede che si ripetono in ogni trincea.
Ogni pagina di questi autori è una foto capace di raccontare un universo di vite, sentimenti, dolori.
A pagare con la vita saranno in molti. E anche coloro che sopravvivono sfatano il mito della bella guerra, romantica ed entusiastica.
Il centenario della Grande Guerra può essere soprattutto questo, la ricerca di una letteratura che fu grande nella narrazione dei sentimenti e dei fatti, lasciando pagine irripetibili.