Giuseppe Bedeschi Il Sole 24 ore Domenica 17 maggio
Giustamente il giovane storico Giorgio Volpe, nella sua scrupolosa ricostruzione (basata su ampie letture e ricerche, anche archivistiche) del “sindacalismo rivoluzionario in Italia”, sottolinea la provenienza meridionale della maggior parte dei suoi esponenti. Infatti Arturo Labriola ed Ernesto C. Longobardi erano nati a Napoli, Enrico Leone a Pietramelara (Caserta), Sergio Panunzio a Molfetta, Agostino Lanzillo e Paolo Mantica a Reggio Calabria, ecc. Questa origine meridionale di tanti “sindacalisti rivoluzionari”, che combattevano aspramente i socialisti riformisti (Turati, Treves, Bissolati, Bonomi ecc.), non era senza significato, poiché Turati e i suoi compagni esprimevano le aspirazioni e gli interessi del proletariato industriale e agricolo del Settentrione, mentre Arturo Labriola e i suoi compagni esprimevano la disperazione, il ribellismo, il pessimismo radicale dei socialisti del Mezzogiorno, escluso pressoché interamente, per la sua arretratezza economica e per l’immobilismo sociale della grande proprietà fondiaria, dai benefici del nuovo corso liberale giolittiano.
Il “sindacalismo rivoluzionario” fu tutt’altro che un episodio nella storia del socialismo italiano del primo decennio del Novecento. Giorgio Volpe ne narra accuratamente tutte le vicende: la prima esperienza vissuta da Arturo Labriola, Ernesto Longobardi, Walter Mocchi, intorno al giornale «La Propaganda»; il trasferimento di Labriola alla fine del 1902 a Milano, dove fondò e diresse il settimanale «Avanguardia socialista»; il prevalere dei “sindacalisti rivoluzionari” nel congresso regionale lombardo del Psi svoltosi a Brescia nel gennaio del 1904, e poi, in aprile, nel congresso nazionale di Bologna (che li vide di fatto alleati con la corrente di Enrico Ferri); il primo grande sciopero generale nazionale (in settembre), che paralizzò il Paese e suscitò preoccupazioni vivissime nelle classi dirigenti e nella piccola e media borghesia.
Alle posizioni più propriamente ideologiche dei sindacalisti rivoluzionari, Volpe dedica soprattutto un capitolo, intitolato: «Riforma o rivoluzione sociale?». Il titolo di questo capitolo ricalca il titolo di un importante libro di Labriola, pubblicato nel 1904: Riforme e rivoluzione sociale. In tale saggio l’autore si ispirava al pensiero di Georges Sorel, e sosteneva che il marxismo dei riformisti costituiva una profonda adulterazione del marxismo rivoluzionario. Per Marx, diceva Labriola, la classe operaia, nel corso della propria evoluzione, doveva tendere all’abbattimento del capitalismo e al tempo stesso dello Stato. Ma i politicanti del socialismo non vedevano di buon occhio questa posizione: statalismo e parlamentarismo costituivano anzi il giocondo binomio dei socialisti riformisti. I quali non capivano che il sistema parlamentare era sorto per assicurare che tutti gli interessi dei vari settori e gruppi borghesi fossero rappresentati, e che tutti fossero garantiti da sopraffazioni degli uni sugli altri; lo Stato, a sua volta, era stato edificato affinché, con la sua macchina repressiva, garantisse gli interessi di tutti borghesi contro le lotte dei lavoratori. Di qui la duplice esigenza, per Labriola, di abolire e il parlamentarismo e lo Stato.
A tale abolizione avrebbe provveduto il sindacato, una volta che esso avesse abbracciato la totalità della classe operaia, cioè la grande maggioranza della popolazione. Demolita finalmente la macchina statuale borghese, il sindacato avrebbe riunito l’uomo e il cittadino, che la società capitalistica aveva scisso. Non vedendo ciò, i socialisti riformisti rimanevano del tutto sul terreno della società borghese, nella quale volevano introdurre solo piccole riforme.
Queste posizioni ideologiche (con forti implicazioni politiche) di Labriola, che qui ho riassunto per sommi capi, non sono, a mio parere, analizzate adeguatamente da Volpe (e questo mi sembra il difetto principale del suo pur interessante libro, così ricco di notizie). Sicché dal suo lavoro non risulta in modo sufficientemente chiaro che fu proprio questo completo divorzio fra socialismo e democrazia politica, fra socialismo e sistema parlamentare, a predisporre un buon numero di “sindacalisti rivoluzionari” (Michele Bianchi, Angelo O. Olivetti, Paolo Orano, Sergio Panunzio, ecc.) ad aderire al fascismo. Lo stesso Labriola, del resto, che in un primo tempo si oppose a Mussolini e riparò per diversi anni all’estero, con la guerra di Etiopia si riconciliò col regime fascista e rientrò in Italia.
Giorgio Volpe, La disillusione socialista. Storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia , Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, pagg. 214, € 28,00