Caro Direttore,
come sempre, mensilmente con il tuo editoriale, ci richiami alla riflessione e mai come in questo momento ce n’è bisogno. Il Corona virus ci costringe ad un curioso esperimento. Ci sono dentro tanti ingredienti, la paura di qualcosa di incombente (per la mia generazione “la cosa da un altro mondo” di cinematografica memoria), la riscoperta del tempo, la convivenza con i familiari stessi che su questa scala temporale nessuno ha conosciuto prima, l’esaltazione delle comunicazioni tecnologiche. Hanno lanciato un generalizzato corso di autoaggiornamento nell’Università e nella scuola che, in tempi normali, molti colleghi avrebbero rifiutato sdegnosamente di fare e, per i giovani, l’abitudine a stare con se stessi invece di cercare le sicurezze esistenziali nel gruppo, qualche volta traboccando nel bullismo. Non sarebbero cose cattive se non ci fosse l’innominabile CV di cui non sappiamo ancora la potenza.
È una guerra? Per me sì. Ho vissuto questa vita ormai lunga con un pensiero che direi quasi quotidiano, l’idea che come tutte le altre generazioni anche la nostra avrebbe conosciuto la guerra. Parlo naturalmente della guerra vissuta personalmente, quella che uccide perché l’ordine che viene dall’altro uomo è uccidere a più non posso e che ti distrugge la casa, ti costringe a cercare un riparo, a cercare un cibo che non c’è. Non era lontana. Alla nostra generazione la raccontavano i babbi e le mamme, attraverso i loro ricordi, le memorie dello sfollamento, della paura quotidiana e della difficile sopravvivenza. Ci raccontavano della tessera per il pane, della borsa nera, e mio padre, che era sarto, del lavoro di riparazione dei vestiti in cambio di un pane, e così via, e la bomba nel Duomo di San Miniato che aveva ammazzato tanti conoscenti. Vista in questa chiave la vicenda che noi viviamo parrebbe quasi una rappresentazione teatrale, quasi un replay perché ci ricordassimo la nostra fragilità umana e sociale. Ma ci sono i morti, e anche in questo c’è differenza. Noi non vediamo i cadaveri che sono tanti, quanti possono esserci in una guerra, e la nostra emozione non è come quella che provavano loro vedendo il sangue. E, tuttavia, è una guerra e ci dà delle regole e ci rende il senso della coesione. Mi è piaciuto l’orgoglio delle bandiere esposte, il canto dell’inno che, nei primi giorni ci ridava certezza anche per il senso che veniva da certi commenti europei che suonavano la versione contemporanea del “pizza e mandolino” di un tempo.
Oggi è tempo di sentirci europei e di rispettarci tuti come cittadini europei. Lo stato ha fatto la sua parte e speriamo che nessuno se ne appropri perché i protagonisti siamo, come sempre noi, il popolo che sa comprendere molto di più di quanto gli venga riconosciuto. Ora con i fratelli europei stiamo conquistando il diritto ad essere davvero Europa, ad essere quel modello di equilibrio tra prosperità e sicurezza sociale che, negli anni Settanta eravamo in grado di rappresentare come salto di qualità rispetto al collettivismo sconfitto e al capitalismo selvaggio. Era un modello non teorico ma pratico e personaggi lungimiranti come Willy Brandt e Dehors ne avevano dato lo schema.
Questa è una guerra e, dalle guerre, si deve uscire ricostruendo e lo si dovrebbe fare, ora che i sovranismi e i particolarismi, sono sciolti come neve al sole, pensando davvero in termini europei, non monetaristi e liberisti, ma liberali, democratici e sociali.
Cari saluti e un abbraccio a tutti. Fabio Bertini