LETTERE A SERGIO ROMANO Corriere della Sera 1 settembre
Le vicende egiziane di questi giorni mi hanno indotto una volta di più a riflettere sulla precarietà dell’attuale sepoltura di Vittorio Emanuele III nella chiesa di Santa Caterina, nell’Alessandria d’Egitto dove sono nata quando il re era in esilio. Mi chiamo Jela Gasche, sono figlia di Maria Ludovica Calvi di Bergolo e nipote di Jolanda di Savoia. Cerco di vincere l’immagine di quella chiesa assaltata da fanatici e profanata, come già avvenuto per tante altre, ma non ci riesco. È un’eventualità non remota, e non credo che mio bisnonno meriti anche questo oltraggio. Spero che molti Italiani la pensino come me. In questo nostro Paese sono sepolte tante persone che secondo i parametri applicati a Re Vittorio potrebbero giacere altrove. È per questo che rivolgo a lei un accorato appello perché voglia sollevare il problema, al fine di consentire che la salma possa rientrare in Italia; il Pantheon sarebbe troppo chiedere all’attuale classe politica, ma sono certa, anche dai ricordi di mia madre, che il Re vorrebbe essere vicino ai suoi soldati al cimitero di Redipuglia.
Jela Gasche
Cara Signora, Temo che molti abbiano dimenticato o ignorino da sempre le ragioni per cui Vittorio Emanuele III, penultimo re d’Italia, morì ad Alessandria d’Egitto il 28 dicembre 1947. Non per lei, quindi, ma per questi lettori, ricordo le circostanze che lo persuasero all’esilio. Dopo la conclusione dell’armistizio e la fuga da Roma, gli Alleati e molti monarchici italiani (fra cui Enrico De Nicola e Benedetto Croce) temettero che la presenza al vertice dello Stato di un uomo che aveva lungamente convissuto con il fascismo avrebbe pregiudicato le sorti della monarchia e favorito le sinistre. De Nicola propose il ricorso all’istituto della Luogotenenza e Vittorio Emanuele accettò di trasmettere i suoi poteri al figlio Umberto non appena gli eserciti alleati fossero entrati a Roma. Ma agli inizi del 1946, mentre si avvicinava il giorno del referendum istituzionale, gli stessi consiglieri giunsero alla conclusione che soltanto la sua abdicazione avrebbe offerto a Umberto una maggiore speranza di vittoria. La cerimonia ebbe luogo a Posillipo, nella residenza della famiglia reale, alle 15 del 9 maggio. Quattro ore dopo, Vittorio Emanuele e la moglie Elena salirono a bordo dell’incrociatore Duca degli Abruzzi che li avrebbe portati in Egitto. Era stato deciso che l’abdicazione e la partenza avrebbero avuto luogo nello stesso giorno. Occorreva creare il fatto compiuto, impedire le obiezioni e le riserve di coloro che, come Palmiro Togliatti, avrebbero preferito fare campagna contro un re compromesso col fascismo ed ebbero la notizia soltanto a cose fatte. Ad Alessandria il re d’Egitto, Faruk, volle che Vittorio Emanuele avesse un’accoglienza regale e soggiornasse nel suo palazzo. Ma il vecchio re preferì una piccola villa nella via Constantin Chorem, alla periferia della città. Vi rimase più di un anno mezzo sino alla morte, il 28 dicembre 1947. Passò gli ultimi mesi passeggiando, pescando, ricevendo i parenti, riandando con la memoria alle vicende del suo regno e agli uomini che aveva conosciuto. Di Mussolini diceva: «Gran testa, intelligenza eccezionale… un giocoliere nella politica, un ignorante pretenzioso nelle cose militari…». Per la sua sepoltura, esclusa la possibilità del ritorno in Italia, furono discusse alcune proposte: il cimitero latino di Alessandria, una cappella di famiglia offerta dalla vedova di un irlandese nella chiesa del Sacro Cuore, una piccola chiesa nel quartiere di Moharren Bey. Ma Elena scelse la cattedrale di Santa Caterina dove la bara fu tumulata in un loculo dietro l’altare maggiore con una targa in cui è scritto «Vittorio Emanuele di Savoia 1869-1947». Anch’io penso, cara Signora, che quella bara debba tornare in Italia. Vittorio Emanuele non fu soltanto l’uomo che convisse per 21 anni con il fascismo. Fu anche il re che favorì la svolta democratica di Giolitti agli inizi del Novecento, che trascorse al fronte gli anni della Grande guerra, che congedò Mussolini nel 1943. Nel bene e nel male appartiene alla storia d’Italia ed è giusto che torni a casa. Sergio Romano